Questo libro si propone di affrontare in modo nuovo la questione del crimine organizzato italiano nella seconda metà del XIX secolo, utilizzando la categoria di "classi pericolose". Questa impostazione è diversa dalla prospettiva, comunemente adottata, che punta viceversa a studiare il crimine organizzato ottocentesco ex post, per cosi dire, "dall'oggi", e cioè a partire dalle forme e dalle strutture che la criminalità organizzata si è data durante il secondo dopoguerra. Vi è al fondo di questa prospettiva un residuo di un pregiudizio di stampo romantico, l'idea per cui vi siano dei soggetti separati, "i criminali", intesi come un popolo a parte, portatore di inequivocabili stigmate comportamentali e attitudinali che li rendono sempre uguali a sé stessi malgrado il tempo trascorso. L'adozione del modello delle "classi pericolose" consente invece di muoversi in direzione opposta, basandosi sulla concezione del crimine condivisa nell'Ottocento. Tutto ciò ha conseguenze importanti. Piuttosto che considerare, ad esempio, l'analisi della mafia delle origini come una sorta di premessa utile a sceverare le radici lunghe di pratiche criminali che daranno poi luogo nel XX secolo a "Cosa nostra", esso invita invece a immergersi nella confusione dei discorsi e delle pratiche di quell'epoca.