Di fronte alla grande espansione della comunicazione digitale, i giovani romanzieri anni duemila tendono a reagire spettacolarizzando la scrittura: puntano a emozionare il lettore con le trovate effettistiche, il gioco delle coincidenze a sorpresa, le scene madri. Non sono più i tempi in cui far commuovere chi legge era ritenuta una procedura mistificante, addirittura disonesta. Adesso, risvegliare la sensibilità dei destinatari, galvanizzandone il pathos, vale come un incentivo a non assopirsi nel ristagno conformista di una vita senza vita. E così riscoprire il fervido piacer del pianto, tanto caro al più autentico romanticismo psicosociale.
Dieci anni sono già passati da quella che la storia ricorderà come la «strage di Nasiriyah», l’eccidio di militari italiani più grave dal secondo conflitto mondiale. Nell’attentato kamikaze del 12 novembre 2003 persero la vita diciannove dei nostri ragazzi, tra i quali 12 carabinieri e 5 soldati dell’esercito, impegnati in missione di pace per la ricostruzione dell’Iraq dilaniato dalla guerra. Che cosa è avvenuto in questi dieci anni? Il sangue versato a Nasiriyah non si è perso in un fiume sterile di dolore, ma ha irrorato terreni nuovi di speranza e vinto la morte con messaggi concreti di vita: grazie a Margherita Caruso Coletta, moglie del brigadiere Giuseppe ucciso nella strage, tanti aiuti hanno raggiunto le regioni più povere dell’Italia e del mondo. In Burkina Faso sono stati costruiti un Centro per bambini orfani, un refettorio, un dispensario medico e cinque pozzi per l’acqua potabile, il tutto grazie in gran parte ai proventi di Il seme di Nasiriyah, il libro che Lucia Bellaspiga e Margherita hanno scritto nel 2008 mettendo in moto un circolo virtuoso tra milioni di italiani. «Ama il tuo nemico, prega per il persecutore», aveva detto Margherita la sera della strage, scuotendo tante coscienze. Molte da allora hanno ritrovato la fede e la forza del perdono.