Il volume accompagna nella lettura di uno dei testi più belli della letteratura religiosa di ogni tempo: "Il pensiero alla morte" di Paolo VI (1897-1978). Il titolo dell'opera può trarre in inganno: non è una meditazione sulla morte, ma una riflessione sul senso della vita, scritta dall'allora pontefice in un periodo di riposo, a Castelgandolfo, nell'estate del 1965. Tre i temi centrali: la gratitudine per i sempre sorprendenti doni della vita e del mondo; il pentimento per non averli sempre utilizzati a dovere; la scelta di fare del proprio tempo un rinnovato dono d'amore per tutti. Un'occasione per entrare nel cuore di una delle personalità più significative, e ancora da riscoprire, del XX secolo.
I Frammenti lirici, indiscusso capolavoro poetico di Clemente Rebora, sono dedicati «ai primi dieci anni del secolo ventesimo». Anni di sconvolgimenti epocali non meno profondi di quelli attuali. La seconda parte di quel cruciale decennio Rebora – giovane rampollo della borghesia milanese laica mazziniana e progressista – la dedicò agli studi letterari all’università, dove strinse un fortissimo legame di amicizia con Daria Malaguzzi Valeri, Antonio Banfi e Claudio Monteverdi (questi ultimi futuri prestigiosi accademici).
Ci sono rimaste un’ottantina di lettere a questi amici; in esse Rebora racconta – con linguaggio di grande potenza espressiva e di frequenti striature poetiche – la propria ricerca di certezze, valori,
ideali che andassero al di là di quelli, pur rispettati, ricevuti in famiglia. In lui bruciava il desiderio di uscire da orizzonti prevedibili e circoscritti, tanto quanto agognava abbandonare l’asfissia cittadina per respirare la vastità degli spazi alpini. Nel presente libro vengono pubblicate queste lettere fino ad oggi inedite.
Non ci sarà forse qualcuno che crede ancora alle definizioni del vecchio catechismo? O che le vicende narrate nei Vangeli siano fatti reali? O che l'obbedienza all'autorità di un incolto valga più delle sottili diagnosi di un intellettuale? Nella brillante Parigi del 1910 gli uomini di cultura potevano ammettere che il cristianesimo fosse seguito da popolane attaccate alla tradizione, o da fanciulle in crisi adolescenziale, ma che lo abbracciasse il giovane dal mai rinnegato passato socialista, il tenace editore di una rivista piccola ma di altissima levatura, lo scrittore candidato al più prestigioso premio letterario della capitale, Charles Péguy insomma, era troppo. Bisognava rimettere le cose al loro posto, magari con una recensione critica del Mistero della carità di Giovanna d'Arco. Quegli intellettuali non immaginavano con quanta forza Péguy avrebbe reagito per difendere la sua fede. E la forza delle pagine di questo cahier, finora inedito in italiano.
Che senso ha vivere se dobbiamo morire? Questo saggio è stato ispirato essenzialmente da questa domanda. Che senso ha la vita umana, così grande e così fragile, così sublime e così misera, tesa all'infinito e sfidata dal limite? È questa la domanda che anima il desiderio di vivere e stimola la ragione. E la risposta adeguata non può mai essere solo un discorso astratto, una teoria, ma la testimonianza di un'esperienza, di un incontro, di un avvenimento che soddisfano il cuore placando la sua naturale inquietudine. Solo un'esperienza di vita che vince la morte senza censurarla è la risposta adeguata alla vita che domanda una pienezza più grande dei suoi limiti.