Prima di essere decifrati da Champollion, i geroglifici egiziani vennero interpretati – in una lunga e grandiosa linea di pensiero che va dalla tarda antichità al diciassettesimo secolo, da Plotino ad Athanasius Kircher – come una lingua non discorsiva, segreta e rivelatrice, fatta solo di immagini. Sir Thomas Browne (1605-1682) pose in atto questa concezione in tutta la sua opera di erudito e sommo prosatore – opera discreta, elusiva, difficilmente classificabile; fondata su di una cultura composita, stratificata e ormai remota; scritta in una lingua coperta dalla patina del tempo, in cadenza naturalmente religiosa e cerimoniale. Un'opera che si presenta come una complessa figura sul punto di disfarsi, come un mosaico le cui tessere stiano per essere separate e disperse. Alcuni degli elementi che sono delicatamente congiunti in quelle pagine, in un equilibrio ricco e precario, non si sono mai più ritrovati in così stretto contatto. In Browne la medicina e la teologia, l'erudizione antiquaria, la scienza naturale e il simbolismo ermetico si compongono in un solo discorso dalle molteplici e divergenti articolazioni. Il tempo, che ha rivelato sempre più lo splendore della sua prosa, ha anche confuso i tratti di quel discorso, ne ha offuscato i diversi significati. In quegli scritti alcune parole sono creste di continenti sommersi, sicché la perlustrazione delle topografie nascoste dovrebbe precedere ogni giudizio sull'opera. Una traccia può esser data dalla parola «geroglifico».
Come approdi momentanei di un itinerario inventato - dal Mar di Cina e dall'Oceano Indiano al tenebroso "Mare Abbracciante" in Estremo Occidente sfilano isole mirabili, piccoli universi dagli ambigui confini, viste, immaginate e raccontate da autori musulmani di varia provenienza (dall'Iraq alla Persia, al Marocco, alla Spagna), mercanti e viaggiatori, ma anche sedentari compilatori di opere geografiche, in un arco di tempo che va dalla metà del IX al XV secolo. Isole che appaiono e scompaiono, isole abitate soltanto da donne, o da esseri che si fanno sentire ma non si fanno mai vedere, l'isola delle scimmie, del leggendario e vendicativo uccello Rukhkh, degli antropofagi, del rubino, dei granchi pietrificati, degli androgini. Infinite varianti di isole fantastiche, che evocano meraviglie: come "Finzioni" di Borges, o "Le città invisibili" di Calvino o il "Libro dei mostri" di Wilcock.
Quale fu veramente il peccato di Adamo? Per secoli (molto prima, e dopo, che il libertino olandese Beverland la fissasse, alla fine del Seicento, in una "forma acida, sacrilega, canzonatoria"), un'ipotesi "scandalosa" ha attraversato, in modo esplicito o sotterraneo, le controversie di teologi, rabbini, alchimisti, cabalisti, filosofi, senza dimenticare poeti e pittori, nonché "la folla confusa degli umili e dei pii": che quel peccato consistesse nella conoscenza carnale di Eva. Con conseguenze vastissime su quelli che furono e sono i nostri "dolenti e ansiosi interrogativi sulla natura del Male": nel caso si accolga tale ipotesi, infatti, è lo stesso piacere fisico a diventare "la radice prima" di ogni iniquità, e tutti noi, figli di Adamo, meritiamo di essere dannali in quanto "intimamente, essenzialmente contagiati" da quel peccato. Da Filone Giudeo ai romantici tedeschi, da San Tommaso a Paracelso, dai Catari alle "torturate alchimie della carne e dello spirito" di Baudelaire, Antonello Gerbi ripercorre la storia delle "infinite diatribe" (e delle "idiozie, le sudicerie e i tormentati arzigogoli") che quei pochi versetti hanno generato, con una capacità di fare storia delle idee che in Italia è stata sua e di pochi altri: ne risulta un libro al tempo stesso brillante e documentato, caustico ed erudito, spiritoso e profondo, che appassiona e induce a riflettere.
Quando fu ravvisata la sorprendente affinità della scultura romanica con le immagini dell'antica arte mesopotamica, non pochi archeologi e storici si dedicarono con fervore all'esplorazione del nuovo, affascinante territorio di studi. Ma solo il giovane Baltrusaitis doveva individuare, con facoltà rabdomantica, il complesso e occulto reticolo di vie che aveva messo in contatto due mondi così distanti nel tempo e nello spazio. E il saggio in cui condensò i suoi studi, apparso nel 1934, non mancò di produrre un effetto dirompente nel mondo della storia dell'arte, rivelandosi subito, nella sua "prodigiosa rapidità", un'opera fondamentale. A quell'opera si accompagna qui il "Ritratto" tracciato da Jean-François Chevrier - che resta ancora oggi l'unica, preziosa fonte sulla vita di Baltrusaitis - in cui vediamo delinearsi con vividezza la "mitologia personale accuratamente nascosta, dissimulata nei libri", di uno studioso che seguì una linea audacissima di ricerca, dove si apriva la strada da solo. Una biografia intellettuale e al tempo stesso l'inaspettata apertura di un uomo elusivo, che per la prima volta ha accettato di svelarsi confidando "sceltissimi ricordi": per esempio di quando Pasternak, amico di famiglia, mimava buffe scenette davanti a lui bambino; o di quando, trovandosi a Milano con i genitori, a otto anni, "si smarrì in mezzo alla folla, ma come per miracolo riuscì a ritrovare l'albergo. "Un angelo è sceso da una guglia del Duomo e mi ha preso per mano" disse".
Per l'India dei Veda, tutto è racchiuso nel rito e nel sacrificio: un corpo vivo di azioni minutamente codificate, di cui i Brahmana, antichissime opere di ermeneutica del rituale, studiano incessantemente l'anatomia e la fisiologia. In questa raccolta di saggi Malamoud, fra i massimi rappresentanti della tradizione indologica francese, attinge dall'immenso corpus delle speculazioni brahmaniche sul sacrificio per gettare luce su alcuni suoi tratti essenziali: dalla rivalità fra mito e rito alla polarità sessuale che pervade ogni atto cerimoniale, dagli aspetti teatrali di quanto viene inscenato alla negazione della violenza proprio là dove la violenza si esprime nella forma più cruda e scoperta.
Nel 1939 Alexandre Kojève portò a termine quelle lezioni sulla "Fenomenologia dello spirito", che iniziate nel 1938, lo imposero come uno dei più importanti interpreti di Hegel di tutto il Novecento. Da allora sparì dalla scena filosofica, quasi mettendo in atto l'estrema conseguenza dell'idea che la storia fosse finita. In realtà Kojève continuò la sua attività in forma semiclandestina, un'attività di cui questo libro vorrebbe mostrare anche gli aspetti più eccentrici accostando al dibattito con Leo Strauss le lettere allo zio Kandinskij, alla ricostruzione dei rapporti fra cristianesimo e scienza uno scritto su Raymond Queneau. Gli scritti raccolti restituiscono un'idea meno approssimativa dei molteplici e sfaccettati interessi del filosofo.
Discendente di una famiglia di rabbini, Taubes esordisce govanissimo con un importante libro sulle concezioni apocalittiche ed escatologiche della storia, da Giovanni a Gioacchino da Fiore fino a Marx e Kierkegaard, cui seguono lunghi anni di silenzio durante i quali egli si impone come un autorevole "maestro orale": è intorno al suo istituto a Berlino che, sul finire degli anni Sessanta, si raccolgono i leader della rivolta studentesca. E a lui fanno capo numerose iniziative di grande rilievo.