Albert Einstein conosce Mileva Marić nel 1896, al Politecnico di Zurigo, dove entrambi studiano fisica. È l’inizio di un sodalizio umano e intellettuale tra due giovani aspiranti scienziati che presto sfocia in un’appassionata relazione e, nel 1903, nel matrimonio.
Alla compagna di studi «forte e indipendente» il giovane scienziato confida sogni, progetti, speranze e disillusioni; sono le tappe, spesso sofferte, di una maturazione emotiva e intellettuale che lo porterà alle grandi scoperte del 1905, vere «rivoluzioni concettuali» del nostro secolo. Mileva, lungi dall’essere quella pallida ombra tramandataci dalle biografie di Einstein, non è certo estranea alla straordinaria progressione creativa del compagno, con il quale condivide molti interessi scientifici, aiutandolo come lui stesso ammise a risolvere i suoi «problemi matematici».
Dalle lettere – che coprono l’arco di tempo che va dal 1897 al 1903, poco dopo il loro matrimonio – emergono anche i conflitti con gli altri scienziati, le costanti preoccupazioni per la ricerca di un posto di lavoro e le difficoltà incontrate dalla coppia che culmineranno con la nascita della figlia illegittima Lieserl e indeboliranno progressivamente il legame tra i due.
Una testimonianza fondamentale che documenta un’intesa intellettuale e umana e che rivela un Albert Einstein sconosciuto al grande pubblico, per una volta ottimista, fiducioso nella vita, colto nel pieno degli anni giovanili, poco prima di diventare il genio iconico e il patriarca della fisica del xx secolo.
In questo inizio di Terzo Millennio a molti pare che un ritorno al silenzio sarebbe necessario e auspicabile. Ma che tipo di silenzio? Remo Bassetti ci offre in questo breve libro una «grammatica del silenzio», come antidoto al frastuono imperante che ci circonda.
Dalla primavera all'autunno: nella magnificenza delle stagioni più rigogliose Francois Cheng scrive queste sette lettere che mettono in risonanza paesaggi del presente, tradizioni di pensiero orientali e occidentali, ricordi di una giovinezza in Cina, affetti ritrovati. La destinataria è un'amica ricomparsa a distanza di decenni, un'artista che gli confessa di essersi accorta tardi di possedere un'anima, invitandolo a parlarne insieme. Dapprima esitante di fronte alla parola desueta «anima», Cheng risponde all'appello con la stessa grazia con cui in passato si è sporto su altri concetti abissali, come la bellezza e la morte. La «temerarietà» di accostarsi, oggi, a un simile argomento, si rivela una benedizione, per lui, per la sua interlocutrice e per i lettori, perché lascia riaffiorare in ciascuno qualcosa che sembrava perduto da tempo, il «sentimento intimo di un'autentica unicità e di una possibile unità». Agli occhi di Cheng, ancora pieni di meraviglia dopo una lunga esistenza, null'altro è l'anima se non il «segno indelebile» di quell'unicità incarnata, che sfugge al rigido dualismo corpo-mente e partecipa dell'universo vivente. Nel suo procedere a lieve arabesco, la scrittura indugia su taoismo e patristica, buddhismo e Simone Weil, ma si concede anche gli abbandoni della memoria: tutto - dottrine, filosofie e sprazzi di storia personale - converge verso l'anima, inesauribile aspirazione alla vita.
Chi avrebbe supposto che zoppia e mancinismo - oltretutto associati nella stessa figura ideale - venissero portati a vanto del pensiero in atto, come le sue insegne più onorifiche? A compiere il gesto di giustizia che li riscatta dalla difettività è Michel Serres, epistemologo ultraottantenne così intrigato dall'attuale sconvolgimento del sapere da farsene il supremo cantore, con un'euforia lungimirante e contagiosa, con un'audacia concettuale ignota ai colleghi giovani o a chi rimane abbarbicato a un "umanesimo di opposizione", e con uno stile ruscellante evocatore di mondi, al pari di Lucrezio. Alle idee astratte Serres preferisce da sempre le figure sintetiche. Il mancino zoppo è l'eroe dell'"età dolce", la nostra, che nella riconfigurazione digitale dello spazio-tempo si lascia alle spalle la "dura" rigidità euclidea, cartesiana, metrica, abitando la dimensione utopica del possibile e recuperando il concreto attraverso il virtuale. Ma è anche il simbolo vivo di ogni lavorio della mente degno di questo nome, dalla notte dei tempi: pensare vuol dire infatti deviare dai tracciati, avanzare di traverso e un po' sghembi, rompere le simmetrie, afferrare il segreto di ciò che sarà domani con la stessa "formidabile inventiva dell'Universo in espansione". No, non c'è posto per il già formattato, secondo Serres. "Non conosco alcun metodo che abbia mai aperto la strada a qualche invenzione; né alcuna invenzione trovata con metodo".
L'arte non è sospesa nel vuoto. Come scriveva T.S. Eliot, "quel che accade quando viene creata una nuova opera d'arte accade simultaneamente anche a tutte le opere che l'hanno preceduta". Ogni tassello che si aggiunge all'immenso patrimonio artistico dell'umanità ridefinisce la storia stessa e mette in prospettiva diversa ciò che era già stato creato. Arte e storia, uomini e capolavori, sono un tutt'uno nel fluire del tempo. Tenendo tutto ciò sempre ben presente, Martin Kemp ha scritto questo impeccabile compendio di storia dell'arte, un'introduzione da cui partire per intuire la complessità della nostra immensa tradizione pittorica e scultorea. Dalla Grecia di Fidia agli affreschi pompeiani, dai mosaici bizantini all'incredibile Medioevo italiano, alla ritrattistica olandese, al Rinascimento e al Barocco; da Vermeer a Canaletto, da Goya a Turner, dalla scuola ottocentesca francese fino alla rottura novecentesca degli schemi, per giungere alle ultimissime installazioni artistiche a cavallo del millennio. Questo breve libro è un 'tour de force' artistico ben congegnato: un libro necessario per immergerci nella bellezza del nostro mondo.
Cosa può succedere se Ken, il fidanzato di Barbie, viene a sapere che la sua amata bambolina è la causa della deforestazione del Borneo? Succede che una campagna pubblicitaria lo denuncia e la casa produttrice è costretta a cambiare la filiera produttiva. Succede cioè che la vita dell'orango della foresta pluviale e quella dei nostri figli in Europa sono legate tra loro molto di più di quanto si pensi. Poi succede anche che un rapper di un quartiere chic di Seul lancia su YouTube il suo Gangnam Style, e la canzone finisce per essere cantata in dialetto trentino, magari dal pronipote di un irredentista antiasburgico; e succede che un senegalese che vive a Firenze vende un souvenir "etrusco" fatto in Cina a una turista americana. Insomma, è ovvio che l'etnologia e l'antropologia sono completamente da ripensare. Nel nostro mondo globalizzato, nello strano "frittatone planetario" nel quale viviamo, barriere, specificità e contorni sono semplicemente saltati. L'antropologo allora si interroga, cerca nei libri gli insegnamenti dei maestri, ma si vede costretto a rileggerli in chiave diversa, proprio come avviene nella copertina di questo volume, che è un misto di hi-tech e di antropologia ottocentesca (un tantino razzista). In pratica l'antropologia esce dall'università e entra nel mondo, si fa "pop", "antropop", perché è questo il mestiere degli antropologi: interpretare i popoli. E i popoli oggi sono un miscuglio inestricabile.
Negli ultimi vent'anni del Novecento una revisione radicale e destabilizzante ha coinvolto i presupposti etnocentrici del pensiero antropologico, filosofico e politico dell'Occidente. Stava cambiando la geopolitica del pianeta e cominciava a vacillare la proiezione sulle altre culture delle nostre categorie di soggettività, storia, sovranità, cittadinanza, universalità, emancipazione. Il nuovo assetto ha sollecitato il fiorire di studi cosiddetti «postcoloniali», accomunati dalla pratica del contagio. Da allora la contaminazione fra concezioni a prima vista inconciliabili della vita associata appare più proficua dell'arroccamento difensivo, mentre il migrare di concetti e principi segue la diaspora dei corpi in carne e ossa: perde il suo connotato privativo per trasformarsi in uno stato d'elezione. Essere sempre «fuori posto» aiuta infatti a guardare il mondo e se stessi con occhi diversi. Di questo «contrabbando incontrollato di idee al di là delle linee» – secondo il motto fulminante di Edward Said – il saggio di Emanuela Fornari costituisce la prima, completa ricognizione in chiave filosofica. Non c'è linea di frattura o spostamento di confine disciplinare che sfugga alla sua indagine ricostruttiva. Nella consapevolezza che non tutto è trasferibile da una cultura a un'altra, e che va salvaguardato quel coefficiente di intraducibilità di fronte al quale è possibile solo un silenzio a più voci.
Emanuela Fornari è ricercatrice presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università di Roma Tre, dove insegna Ermeneutica filosofica e Filosofia sociale. Ha pubblicato, oltre a diversi saggi in volumi collettanei in riviste italiane e straniere, Modernità fuori luogo. Democrazia globale e «valori asiatici» in Jürgen Habermas e Amartya Sen (2005), di cui è apparsa l'edizione inglese nel 2007.