Un passo fondamentale nello sviluppo della civiltà del Vicino Oriente Antico è la creazione della scrittura, avvenuta quasi contemporaneamente nella seconda metà del quarto millennio a.C. in Mesopotamia meridionale e in Egitto. I sistemi di scrittura, il geroglifico e il cuneiforme, divennero rapidamente dei mezzi estremamente ricchi e duttili per esprimere gran parte dell’esperienza umana, dalla contabilità agli avvenimenti storici, dalla narrazione di miti all’osservazione degli astri e alla geometria. Già all’inizio del terzo millennio la storia comincia per noi a riempirsi di nomi di città, di uomini, di dèi e gli antichi cominciano a comunicare con noi attraverso i millenni.
Al primato nella creazione e nello sviluppo dei sistemi di scrittura il Vicino Oriente unisce la fortuna della conservazione di migliaia di documenti: i papiri nel secco clima egiziano, le tavolette di argilla nel suolo della Mesopotamia, della Siria o dell’Anatolia si sono conservati in gran numero, giungendo sino a noi. Inoltre la tradizione a essi legata non è mai stata veramente interrotta: alla fine del diciottesimo secolo della nostra èra, quando si cominciò a studiare scientificamente questi documenti, gli studiosi partirono dalla conoscenza dell’Antico Testamento e dei classici greci, in particolare Erodoto; un legame con le antiche civiltà era quindi rimasto, mediato dalla tradizione, e permise di affrontare con minor difficoltà l’interpretazione dei testi.
Questo studio mostra come, pur partendo da due concezioni molto diverse della parola e del suo rapporto con l’essere e con il pensiero (razionale), l’interrelazione tra la filosofia greca e la cultura egizia operatasi nel periodo della conquista prima greca e poi romana di tutto il Vicino Oriente (III a.C.-VII d.C.) abbia prodotto una sintesi arricchita dall’apporto di entrambe. Per comprendere le forme che tale sintesi ha progressivamente assunto viene scelto come filo conduttore l’idea di fondo della teologia egizia di età tolemaica, ricostruita ripercorrendo lo sviluppo della teologia egizia dell’età faraonica (III-I millennio a.C.): Dio è l’Uno-e-Tutto, ossia Colui che mentre permane l’Uno preesistente androgino si autogenera come Figlio di sé stesso e come unitotalità del cosmo esistente. Questo è il nucleo teologico che l’ermetismo cerca di esprimere con categorie platoniche, ma che prima ancora viene rielaborato dall’antico stoicismo e con cui si confrontano le principali correnti di pensiero sorte in gran parte proprio ad Alessandria d’Egitto: il giudaismo ellenizzato, il neopitagorismo, il medioplatonismo, gli Oracoli Caldaici, lo gnosticismo e il neoplatonismo. Ciò offre anche un esempio storico di fecondo scambio culturale tra popoli diversi nel rispetto delle rispettive identità religiose che può fungere da modello per l’odierno dialogo interculturale e interreligioso.
L'arte degli antichi abitanti della Mezzaluna Fertile è lontana da noi, cresciuti nel culto del bello classico e della sua armonia.
Armonia scaturita dal felice sodalizio tra uomo e natura in cui il «canone», filtrato dalla sensibilità , appaga l'uomo e insieme, imprigionandola, semplifica, regolarizza, esalta la natura.
Un tale sodalizio coerente con una cultura antropocentrica, come è quella classica, è impensabile nelle culture che l'hanno preceduta, dell'Antico Oriente e dell'Egitto.
In esse l'arte non è indipendente, ma finalizzata a esprimere un mondo di potere e di fede che la sensibilità è inadeguata a mediare.
In esse la realtà che si vuole rappresentare non è ciò che appare, ma ciò che è.
Per esempio, per rendere il potere del faraone, la sua maestà , solennità , trionfo, in Egitto si scolpiscono statue alte come le colonne del tempio cui sono addossate; per dire stupore, venerazione, fede nel divino l'artista sumerico inventa gli occhi enormi che invadono il viso degli «Oranti».
Questa arte antica sa ignorare le immagini che la sensibilità offre e costruirne, inventarne altre asservite a una tensione interiore.
Sa «deformare» per esprimere. Perciò pensiamo che essa possa essere considerata lontana, ma non estranea, lontana ma attuale (pp. 160).
Gli antichi abitanti del Vicino Oriente pensavano che solo la benevolenza degli dèi potesse contrastare le oscure forze del caos, sempre in agguato, e assicurare la permanenza della vita e dell'ordine. La presenza del dio era quindi necessaria: egli doveva abitare fra gli uomini, avere una casa. Nella «casa» il dio veniva accudito, lavato-vestito-nutrito, oltre che venerato. Poteva uscire in visita o in processione, come nella solenne festa del Nuovo Anno a Babilonia, in cui la statua del dio Marduk, accompagnata dal figlio Nabu, seguita da tutti gli dèi venuti dalle «proprie» città e tenuta per mano dal re, lasciava la propria «casa», l'Esagil, per raggiungere la casa delle feste Akitu, sita fuori le mura. In tale modo, all'inizio della primavera, al risveglio della natura, si intendeva rinnovare ritualmente l'opera di creazione del dio. Il tempio era la «porta» con cui il cielo comunicava con la terra: attraverso di essa il dio scendeva a incontrare gli uomini. A loro volta, nel tempio, gli uomini entravano per elevarsi al dio. In esso nell'antico Egitto, quotidianamente, il Faraone, rappresentante di tutta l'umanità , offriva al dio il simbolo di Maat, personificazione della «norma», fondamento della vita cosmica e vita dello stesso Ra, ricreando ritualmente l'ordine prestabilito ed elevandosi quasi a identificarsi con l'essenza divina.
«Casa», «porta», luogo d'incontro: il tempio era chiamato dagli antichi egizi anche «Orizzonte». Dove cielo e terra sembrano unirsi. Quasi a visualizzare l'aspirazione perenne dello spirito umano, la sua irrinunciabile ricerca di una unità misteriosamente spezzata dalla colpa.