Il motore potente e implacabile della società contemporanea è il principio di prestazione. Oggi l'inazione, la contemplazione, l'ascolto sono considerati forme passive, debolezze, carenze: non sembrano avere alcun valore in un sistema che concepisce la vita esclusivamente in termini di lavoro e produzione. Eppure, secondo Byung-Chul Han l'inazione è una delle attitudini più preziose dell'esistenza: nella contemplazione, infatti, l'essere umano vive davvero - al di là della mera sopravvivenza, in cui ogni agire è mosso da stimoli e mirato all'appagamento dei propri bisogni, alla risoluzione di problemi determinati, al raggiungimento di obiettivi spesso eterodiretti. Solo il silenzio permette di tendere l'orecchio al mondo, e solo l'ascolto può condurre all'esperienza vera, alla comprensione profonda dell'essere. L'inazione, dunque, non è né negazione né semplice assenza d'azione, ma va intesa come ciò che "dà forma all'ambito dell'humanum", rendendo genuinamente umano l'agire. In questo libro lucido e ispirato Han celebra le infinite potenzialità, l'incanto e la ricchezza del non agire e, in uno stimolante confronto con Vita activa di Hannah Arendt, progetta un nuovo modo di vivere: la vita contemplativa che la natura e la nostra società sull'orlo del collasso oggi chiedono a gran voce. Perché "il futuro dell'umanità", scrive il filosofo, "non dipende dal potere di chi agisce, bensì dal rilancio della capacità contemplativa".
La trasparenza e i dispositivi digitali hanno cambiato gli uomini e il loro modo di pensare. Alla comunicazione in presenza, alla capacità di analisi e alla visione del futuro si sono sostituiti interlocutori fantasmatici immersi in un presente continuo e sempre visualizzabile attraverso uno schermo. Il soggetto capace di annullarsi in una folla che marcia per un'azione comune ha ceduto il passo a uno sciame digitale di individui anonimi e isolati, che si muovono disordinati e imprevedibili come insetti. Han si interroga su ciò che accade quando una società - la nostra - rinuncia al racconto di sé per contare i "mi piace", quando il privato si trasforma in un pubblico che cannibalizza l'intimità e la privacy. E su che cosa comporta abdicare al significato e al senso per un'informazione reperibile ovunque ma spesso inaffidabile.
Sulla scia della globalizzazione, le forme di espressione della cultura e gli stili di vita circolano in un iperdominio di saperi e pratiche dove non esiste più alcuna reale differenza tra Proprio ed Estraneo, vicino e lontano, familiare ed esotico. Contenuti culturali eterogenei vengono accostati gli uni agli altri come accade nel fusion food. La cultura, "nell'epoca della sua riproducibilità globale", non ha più vincoli, freni, limiti: diventa ipercultura. Oggi siamo ormai tutti turisti iperculturali, anche all'interno della nostra "propria" cultura, a cui di fatto nessuno appartiene più davvero. Tuttavia, nota Han, se da un lato questo fenomeno determina un venir meno di orizzonti univoci di senso, dall'altro è possibile leggervi una tendenza verso l'emancipazione e l'ampliamento della libertà individuale. Dal momento che l'ipercultura non si impone come cultura unitaria e monocroma, ma anzi accresce il piano delle possibilità e permette a ciascuno di costruire la propria identità a partire da modelli e pratiche esistenziali eterogenei, essa può anche favorire nuove pratiche di libertà. Ma allora, si chiede il filosofo analizzando le forme della cultura nella contemporaneità, "bisognerebbe forse piangere la perdita dell'aura, del luogo, dell'origine, di questo auratico qui e ora? O mediante tale perdita si annuncia un nuovo qui e ora senz'aura dotato di un proprio splendore, di un esser qui iperculturale che collima con l'essere ovunque?"
"Mi spiace, ma i fatti sono questi," risponde Han quando, in un'intervista uscita su Zeit Wissen, gli fanno notare che le sue riflessioni non sono molto incoraggianti. "Scrivo quel che vedo. I miei libri possono ferire poiché mostro cose che la gente non vuol vedere. Ma non sono io, non è la mia analisi a essere spietata, bensì il mondo in cui viviamo, con la sua follia e la sua assurdità". Questo volume raccoglie gli interventi più significativi di uno dei massimi critici dell'assurdo mondo contemporaneo. Han ci restituisce un affresco lucido e dissacrante dell'epoca neoliberista e dei suoi paradossi, dai "ragazzi che si fanno fotografare mentre saltellano all'impazzata" al burnout, dai migranti alle sculture levigate di Jeff Koons, da Big Data al coronavirus e alle misure di contenimento della pandemia, in una società già di per sé "organizzata in chiave immunologica" e sull'orlo del collasso. Nel presente la coazione a produrre assume sempre più esplicitamente le forme dell'autosfruttamento e soprattutto dell'autodistruzione, giacché noi per primi "sacrifichiamo volontariamente tutto ciò che rende la vita degna di essere vissuta" e le conseguenze devastanti del capitalismo giunto al suo culmine richiamano in modo preoccupante il concetto freudiano di pulsione di morte. "Perché oggi non è possibile una rivoluzione" è una perfetta introduzione al pensiero radicale di Byung-Chul Han, e dunque è anche un invito, aperto e appassionato, a invertire la rotta.
L'odierna ossessione per un'autenticità fondata sul narcisismo dell'Io, la costante ricerca del nuovo e dell'inedito, la bulimia consumistica dell'usa e getta che pervade ogni ambito determinano, nei rapporti e nelle pratiche che caratterizzano la società contemporanea, una sempre più evidente e sintomatica scomparsa delle forme rituali. Tuttavia, la struttura immutabile e ripetitiva, così come la teatralità dei gesti e l'attenzione riservata alla "bella apparenza", conferiscono ai riti un potere simbolico profondamente unificante. Il silenzio, il raccoglimento, il senso di sacralità necessari allo svolgimento del rito fondano un legame tra il sé e l'Esterno, tra il sé e l'Altro - i riti "oggettivano il mondo, strutturano un rapporto con il mondo", creando una comunità anche senza comunicazione. A questa comunità senza comunicazione, propria della società rituale, Han contrappone la comunicazione senza comunità, quel "baccano" in cui, in una società sempre più atomizzante, il soggetto si esprime e "si produce" ritrovandosi a girare a vuoto attorno a se stesso, privo di un mondo e di reali interazioni. Per infrangere questo cortocircuito, e all'interno di una più ampia critica delle patologie del contemporaneo, Byung-Chul Han propone un recupero del simbolismo dei riti come pratica "potenzialmente in grado di liberare la società dal suo narcisismo collettivo", riaprendola al senso di una vera connessione con l'Altro - e reincantando il mondo.