Ci fu un'epoca in cui, se si incontravano altri esseri, non si sapeva con certezza se erano animali o dèi o signori di una specie o demoni o antenati. O semplicemente uomini. Un giorno, che durò molte migliaia di anni, Homo fece qualcosa che nessun altro ancora aveva tentato. Cominciò a imitare quegli stessi animali che lo perseguitavano: i predatori. E diventò cacciatore. Fu un processo lungo, sconvolgente e rapinoso, che lasciò tracce e cicatrici nei riti e nei miti, oltre che nei comportamenti, mescolandosi con qualcosa che nella Grecia antica fu chiamato "il divino", tò theîon, diverso ma presupposto dal sacro e dal santo e precedente perfino agli dèi. Numerose culture, distanti nello spazio e nel tempo, associarono alcune di queste vicende, drammatiche ed erotiche, a una certa zona del cielo, fra Sirio e Orione: il luogo del Cacciatore Celeste. Le sue storie sono intrecciate in questo libro e si diramano in molteplici direzioni, dal Paleolitico alla macchina di Turing, passando attraverso la Grecia antica e l'Egitto ed esplorando le connessioni latenti all'interno di uno stesso, non circoscrivibile territorio: la mente.
È difficile immaginare qualcosa di altrettanto distante dall'oggi quanto ciò che apparve più di tremila anni fa nell'India del Nord sotto il segno del Veda, quel "sapere" che dichiarava di comprendere in sé tutto, dai granelli di sabbia sino ai confini dell'universo. Ancor più che nel tempo, quella distanza si avverte nel modo di vivere ogni gesto, ogni parola, ogni impresa. Gli uomini vedici prestavano una attenzione adamantina alla mente che li reggeva, per loro mai disgiungibile da quell'"ardore" da cui ritenevano si fosse sviluppato il mondo. E, qualsiasi cosa accadesse, acquistava senso solo in rapporto a un invisibile traboccante di presenze divine. Fu un esperimento del pensiero così estremo che sarebbe potuto scomparire senza lasciare traccia, così come gli uomini vedici lasciarono ben poche tracce tangibili del loro passaggio attraverso "la terra dove vaga in libertà l'antilope nera". Eppure quel pensiero - groviglio composto da inni enigmatici, atti rituali, storie di dèi e folgorazioni metafisiche - ha l'indubitabile capacità di illuminare, con una luce radente e diversa da ogni altra, alcuni eventi elementari che appartengono all'esperienza di chiunque, oggi e dappertutto, a cominciare dal puro fatto di essere coscienti.
"La vera storia dell'editoria è in larga parte orale - e tale sembra destinata a rimanere. Una teoria dell'arte editoriale non si è mai sviluppata - e forse è troppo tardi perché si sviluppi ora. Andando contro a questi dati di fatto, ho provato a mettere insieme due elementi: qualche passaggio nella storia di Adelphi, quale ho vissuto per cinquant'anni, e un profilo non di teoria dell'editoria, ma di ciò che una certa editoria potrebbe anche essere: una forma, da studiare e da giudicare come si fa con un libro. Che, nel caso di Adelphi, avrebbe più di duemila capitoli." (Roberto Calasso)
Al centro di questo libro si trova un sogno, l'unico che Baudelaire abbia raccontato. Entrare in quel sogno è immediato, uscirne difficile, se non attraversando un reticolo di storie, di rapporti e di risonanze che coinvolgono non solo Baudelaire ma ciò che lo circonda. Dove spiccano due pittori di cui Baudelaire scrisse con stupefacente acutezza: Ingres e Delacroix; e due altri che solo attraverso Baudelaire possono svelarsi: Degas e Manet. Secondo Sainte-Beuve, perfido e illuminato, Baudelaire si era costruito un "chiosco bizzarro, assai ornato, assai tormentato, civettuolo e misterioso", che chiamò "la Folie Baudelaire" (folies era il nome settecentesco di certi padiglioni dedicati all'ozio e al piacere), situandolo sulla "punta estrema del Kamcatka romantico". Ma in quel luogo desolato, in una terra ritenuta dai più inabitabile, non sarebbero mancati i visitatori. Anche i più opposti, da Rimbaud a Proust. Anzi, sarebbe diventato il crocevia inevitabile per ciò che apparve da allora sotto il nome di letteratura. Qui si racconta la storia, discontinua e frastagliata, di come "la Folie Baudelaire" venne a formarsi e di come altri si avventurassero a esplorare quelle regioni. Un storia fatta di storie che tendono a intrecciarsi, e per alcuni decenni ebbero come sfondo le stesse strade di Parigi.
«Tutto il libro è, se non scritto, guardato da Baudelaire, perché Calasso cerca sempre di condividere l'occhio con cui Baudelaire osserva i personaggi e le figure mentali del proprio tempo e addirittura del futuro ... Il risultato segreto di questa ricerca è quello che Calasso chiama la storia segreta della letteratura: storia molto difficile, perché gli scrittori sono abilissimi nel celarsi, e nascondono sia le affinità sia le differenze più profonde. Bisogna violare la cortina di menzogne con cui un artista si difende, possedere una cultura che permetta di trovare le somiglianze più lontane, essere preciso e minuzioso come una formica nell'aggirarsi tra i particolari dei testi: conoscere l'arte sovrana del tatto, che consente di cogliere i rapporti esatti fra due brani e due scrittori ... Ci vuole una dote ancora più audace: quella di portare, nel proprio sistema nervoso, l'istinto metafisico» (Pietro Citati).
«... scintillante di nessi e citazioni, suggestioni e maliosi accordi, rimandi, congetture, nodi strettissimi presto sciolti in spirali di fumo vagamente oppiaceo. Un vero sollievo, dati i tempi. E un costante, mai espresso, mai sbandierato, atto di fede implicito: la cultura ("alta", se è ancora lecito) è l'unica cosa che conta» (Carlo Fruttero).
È difficile immaginare qualcosa di altrettanto distante dall'oggi quanto ciò che apparve più di tremila anni fa nell'India del Nord sotto il segno del Veda, quel «sapere » che dichiarava di comprendere in sé tutto, dai granelli di sabbia sino ai con$ni dell'universo. Ancor più che nel tempo, quella distanza si avverte nel modo di vivere ogni gesto, ogni parola, ogni impresa. Gli uomini vedici prestavano una attenzione adamantina alla mente che li reggeva, per loro mai disgiungibile da quell'«ardore» da cui ritenevano si fosse sviluppato il mondo. E, qualsiasi cosa accadesse, acquistava senso solo in rapporto a un invisibile traboccante di presenze divine. Fu un esperimento del pensiero così estremo che sarebbe potuto scomparire senza lasciare traccia, così come gli uomini vedici lasciarono ben poche tracce tangibili del loro passaggio attraverso «la terra dove vaga in libertà l'antilope nera» (così definivano il luogo della legge). Eppure quel pensiero - groviglio composto da inni enigmatici, atti rituali, storie di dèi e folgorazioni metafisiche - ha l'indubitabile capacità di illuminare, con una luce radente e diversa da ogni altra, alcuni eventi elementari che appartengono all'esperienza di chiunque, oggi e dappertutto, a cominciare dal puro fatto di essere coscienti. Questo libro è il tentativo di raccontare come attraverso quei «cento cammini» a cui allude il titolo di un'opera smisurata e capitale del Veda, lo Śatapatha Brāhmana, si può raggiungere ciò che ci è più vicino passando attraverso ciò che ci è più lontano.
«Queste storie non avvennero mai, ma sono sempre». Tali parole di Salustio - forse la più bella, certamente la più concisa definizione del mito - si leggono nell'epigrafe delle Nozze di Cadmo e Armonia. E ci ricordano che le storie degli dèi e degli eroi greci non soltanto si trovano all'origine di tutta la letteratura occidentale, ma continuano a vivere sino a oggi: una vita intessuta di parole innanzitutto, ma altrettanto di immagini. Per più di tremila anni, dai sigilli micenei fino a certi quadri del secolo ventesimo, quelle storie sono state raccontate anche per figuras, sotto forma di statue, vasi, stele, monete, dipinti, affreschi, disegni, rilievi. È un immenso corteo di immagini, che mostrano ogni volta come quegli dèi, quegli eroi e le loro gesta sono stati concepiti, di epoca in epoca, in quanto epifanie.
Le nozze di Cadmo e Armonia - libro che appartiene al più antico genere letterario: la mitografia - presuppone non solo il continuum delle fonti scritte del mondo classico, da Omero a Nonno, ma anche le innumerevoli raffigurazioni dei miti greci attraverso immagini di ogni specie. Con questa edizione, che si presenta come una versione a sé stante, a distanza di vent'anni dalla prima pubblicazione, quelle immagini affiorano in superficie, sempre in corrispondenza a certi dettagli - narrativi o esegetici o anche stilistici - del testo. E si calano nella gabbia tipografica più congeniale e azzardata, che è lo specchio di pagina dove vennero disposte le silografie di un libro che apparve nel 1499 e in cui sembra essere confluito il vasto corso della mitologia classica: la Hypnerotomachia Poliphili. Ogni buon lettore sarà sfidato a cogliere i nessi di questo gioco, che mira a espandere le risonanze delle parole e delle immagini, per via di osmosi, contrappunto e controcanto. Al testo delle Nozze di Cadmo e Armonia si giustappone qui un saggio, Lo sguardo sommario, che tratta di quella singolare e inconfondibile ebbrezza a cui le immagini degli dèi greci - attraverso «le opere e i giorni» di molti secoli - invitano ad abbandonarsi.
Al centro di questo libro si trova un sogno, l'unico che Baudelaire abbia raccontato. Entrare in quel sogno è immediato, uscirne difficile, se non attraversando un reticolo di storie, di rapporti e di risonanze che coinvolgono non solo Baudelaire ma ciò che lo circonda. Dove spiccano due pittori di cui Baudelaire scrisse con stupefacente acutezza: Ingres e Delacroix; e due altri che solo attraverso Baudelaire possono svelarsi: Degas e Manet. Secondo Sainte-Beuve, perfido e illuminato, Baudelaire si era costruito un "chiosco bizzarro, assai ornato, assai tormentato, civettuolo e misterioso", che chiamò "la Folie Baudelaire" (folies era il nome settecentesco di certi padiglioni dedicati all'ozio e al piacere), situandolo sulla "punta estrema del Kamcatka romantico". Ma in quel luogo desolato, in una terra ritenuta dai più inabitabile, non sarebbero mancati i visitatori. Anche i più opposti, da Rimbaud a Proust. Anzi, sarebbe diventato il crocevia inevitabile per ciò che apparve da allora sotto il nome di letteratura. Qui si racconta la storia, discontinua e frastagliata, di come "la Folie Baudelaire" venne a formarsi e di come altri si avventurassero a esplorare quelle regioni. Un storia fatta di storie che tendono a intrecciarsi, e per alcuni decenni ebbero come sfondo le stesse strade di Parigi.
Tiepolo passò la vita a eseguire opere su commissione in chiese, palazzi, ville. Talvolta affrescando vasti soffitti, come per la Residenz di Würzburg o per il Palazzo Reale di Madrid. Intorno scorreva la vita di un'epoca - il Settecento - che lo apprezzò e ammirò, ma senza troppo preoccuparsi di capirlo. Così fu più facile per Tiepolo sfuggirgli, quando volle dedicarsi a effigiare il suo segreto, che tale è rimasto, in una sequenza di trentatré incisioni: i Capricci e gli Scherzi. Ciascuno di quei fogli è il capitolo di un romanzo nero, abbagliante e muto, popolato da personaggi disparati e sconcertanti: efebi fiorenti, Satiresse, Orientali esoterici, gufi, serpenti e anche Pulcinella e Morte. Li ritroveremo tutti nelle pagine di questo libro, insieme a Venere, Tempo, Mosè, numerosi angeli, Armida, Cleopatra e Beatrice di Burgundia: una variegata, zingaresca compagnia sempre in cammino, "tribù profetica dalle pupille ardenti", come suona un verso di Baudelaire. Oltre che un intermezzo smagliante nella storia della pittura, Tiepolo fu un modo di manifestarsi delle forme, un certo stile nell'ostentarsi della loro sfida. Le sue figure rivelavano una fluidità senza ostacoli e senza sforzi. Accedevano a tutti i cieli, senza dimenticare la terra, incarnando per un'ultima volta quella virtù suprema della civiltà italiana che è stata la "sprezzatura".
Di che cosa parlano le storie di Kafka? Sono sogni? Sono allegorie? Sono simboli? Sono cose che succedono ogni giorno? Non si può dire che le innumerevoli risposte si siano rivelate, alla fine, del tutto soddisfacenti. Questo libro segue un'altra via: non già dissipare il mistero, ma lasciare che venga illuminato dalla sua stessa luce. Kafka scrisse tre romanzi incompiuti, non soltanto perché mancavano ancora alcuni episodi. Piuttosto, era come se fossero stati concepiti per prolungarsi indefinitamente, anche oltre il loro autore. Capire quei romanzi implica ripercorrerli e proseguirli. E implica anche mescolarsi al corso, al movimento, alla fisiologia di quelle storie. Sino al punto di trovarsi in un mondo costituito quasi solo dai suoi scritti.