Nel 1984 Márai ha ottantaquattro anni, e vive negli Stati Uniti da più di trenta. Fra il gennaio del 1984 e il febbraio del 1989 scompaiono i due fratelli e la sorella, e anche il figlio adottivo, appena quarantaseienne. Ma soprattutto muore Lola, la donna che è stata la sua compagna per sessantadue anni: Márai, che ha coltivato il sogno impossibile di morire insieme a lei, è costretto a vederla spegnersi lentamente e, dopo averne disperso le ceneri nell'Oceano, a proseguire un'esistenza che ormai non ha più senso. "Scrivevo per lei, ogni singola riga. Non ho più per chi scrivere" annota; il pensiero della "letteratura", dirà più volte, gli provoca ormai solo nausea e disgusto. Eppure - e fin quasi alla vigilia della morte - il vecchio "scrittore ungherese" continua, in questo monologo ininterrotto che è il suo diario, a registrare annotazioni di ogni genere: aforismi perfetti; lucide riflessioni sulla letteratura, sul mondo contemporaneo, sul tema dell'esilio e sulla condizione di esule - e naturalmente sulla prossimità della morte. Sándor Márai scrive l'ultima frase il 15 gennaio del 1989: "Aspetto la chiamata alle armi. Non la sollecito, ma neppure la rinvio. È arrivato il momento". Esattamente un anno prima si era comprato una rivoltella ed era andato più volte in un poligono di tiro per imparare a usarla. Il 21 febbraio, tredici mesi dopo la morte di Lola, si uccide.
Dicembre 1944. L'armata rossa sta per completare l'accerchiamento di Budapest. L'antivigilia di Natale una ragazza di venticinque anni, Erzsébet, che già da mesi vive braccata, sotto falsa identità, riesce a trovare un nascondiglio per il padre: il vecchio, un celebre scienziato a cui gli squadroni fascisti delle croci frecciate danno la caccia, verrà murato, insieme ad altre cinque persone, in una cantina grande quanto una dispensa. Erzsébet, invece, scenderà nello scantinato del palazzo dove vive, insieme a tutti gli abitanti di quello e di altri palazzi dei dintorni. Ci rimarranno per quattro settimane, quanto durerà il terribile assedio, mentre sopra le loro teste infuriano i combattimenti. In quel mondo sotterraneo maleodorante e caotico, in una "promiscuità da porcile", mentre fra la gente ammassata sui materassi si scatenano tensioni sempre più acute, Erzsébet aspetta "qualcosa". Qualcosa che si riassume in una parola: liberazione. Tra poco i russi saranno qui, pensa, e tutto cambierà. Finalmente, nella notte fra il 18 e il 19 gennaio, vedrà la sagoma del primo russo stagliarsi sotto la porta: ma quell'incontro sarà ben diverso da come se l'era immaginato. Scritto in meno di tre mesi nell'estate del 1945 e rimasto inedito fino al 2001, il romanzo è una testimonianza bruciante dell'orrore che un'intera città ha vissuto nei mesi dell'assedio dei sovietici, dei bombardamenti degli Alleati, sottoposta ai rabbiosi rastrellamenti degli sconfitti.
Dopo quarantun anni, due uomini, che da giovani sono stati inseparabili, tornano a incontrarsi in un castello ai piedi dei Carpazi. Uno ha passato quei decenni in Estremo Oriente, l'altro non si è mosso dalla sua proprietà. Ma entrambi hanno vissuto in attesa di quel momento. Null'altro contava per loro. Perché? Perché condividono un segreto che possiede una forza singolare: "una forza che brucia il tessuto della vita come una radiazione maligna, ma al tempo stesso dà calore alla vita e la mantiene in tensione". Tutto converge verso un "duello senza spade" ma ben più crudele. Tra loro, nell'ombra il fantasma di una donna.
Se il professor Victor Henrik Askenasi, proveniente da Parigi e diretto in Grecia, ha deciso di fermarsi a Dubrovnik (che negli anni Trenta si chiama ancora Ragusa), è forse perché - non diversamente dal Giacomo Casanova della "Recita di Bolzano", né da tanti altri personaggi di Márai - è lì che ha un appuntamento con il destino. Perché lì, forse, troverà la risposta alla domanda che da sempre lo tormenta - quella che lo ha spinto, alcuni mesi prima, a lasciare sua moglie, i suoi studi e la sua cattedra di greco antico, e ad andare a vivere con una equivoca ballerina russa. Situazione banale, in apparenza, sebbene altamente "sconveniente", come amici e colleghi l'hanno giudicata: un maturo signore si innamora di una donna giovane e attraente. E invece no: alla turbinosa Eliz, come a tutte le donne che ha incontrato nella sua vita, Askenasi non ha fatto altro che chiedere quella risposta. Ma nemmeno lei, pur nella sua solare sensualità, nella sua generosa impudicizia, ha saputo dargliela: Eliz non era la meta, poteva soltanto mostrargli la strada. Adesso, in un pomeriggio di maggio eccezionalmente caldo, allorché decide di andare a bussare alla porta della sconosciuta che gli ha rivolto uno sguardo provocante chiedendo la chiave della sua stanza a voce appena troppo alta, Askenasi sente che la risposta è vicina, che è infine arrivato il momento di oltrepassare quel limite al di là del quale forse c'è l'oscurità del crimine e della follia - o forse la verità.
È il destino, ancora una volta, a dare le carte: proprio al giudice Kristóf Kómives, cittadino integerrimo, tocca sciogliere dal vincolo matrimoniale Imre Greiner, un medico che è stato suo compagno di collegio e Anna Fazekas, che Komives aveva incontrato qualche volta, molti anni prima. Ma la sera che precede l'udienza Kómives, rincasando a tarda ora, trova ad aspettarlo Greiner, e da lui apprende che un evento atroce è sopravvenuto a rendere inutile la sentenza. Nel corso di un tormentato faccia a faccia Greiner racconterà a Kómives la sua storia con Anna e soprattutto pretenderà da lui una risposta, prima che sia tutto finito. A sua volta Kómives scoprirà le verità che i sogni della notte svelano e le luci del giorno occultano.
A un centinaio di chilometri dal confine italiano, nel vagone letto di prima classe di un treno diretto a Firenze, Z. - il grande, celebre pianista atteso in Italia per un concerto - capisce che nulla sarà mai più come prima: che forse non rivedrà più E., la donna alla quale è legato da un rapporto ambiguo e morboso, in un triangolo il cui terzo vertice è un marito consapevole e benigno; che forse quella sera suonerà per l'ultima volta che tutto, insomma, sarà "diverso". Ma diverso come? Gli ci vorranno mesi per capirlo: quelli che trascorrerà, colpito da un rarissimo virus, in un ospedale di Firenze.
Nel 1969, dopo vent'anni di esilio (e trentacinque dalla pubblicazione delle "Confessioni di un borghese", il primo suo volume di memorie), Márai decide di sfogliare "quell'album di immagini morte" che si porta dentro e di raccontare gli anni atroci del dopoguerra. In un montaggio implacabile e sontuoso fa sfilare quelle immagini davanti agli occhi: dall'apparizione dei russi sulla sponda del Danubio alle rovine di Budapest, ridotta a un cumulo di macerie. E poi il ritorno a una faticosa normalità, il desiderio di scrivere nella lingua materna...
"Che cosa aspetti a infilarti il costume, vecchio commediante, illusionista appassito? Il ballo in maschera sta per cominciare." Il libertino quarantenne ha un gusto amaro in bocca, e la stanza è piena di ombre: sono le ombre della sua giovinezza. Ma ha un contratto, e deve rispettarlo. Dov'è la lettera che gli ha mandato Francesca? "Devo vederti" ha scritto. Oh, non sarà né la prima né l'ultima che riceve da una donna sposata. Questa, però, è stata scritta dalla sola donna che un giorno ha creduto di amare (e lui, per paura di quell'amore, è fuggito). Per di più gliel'ha portata il marito in persona: Sua Eccellenza il conte di Parma.
È solo quando suona alla porta della suocera, alla quale intende confidare la sua pena e i suoi sospetti - sospetti che nella vita di suo marito ci sia un'altra donna, pena per il poco amore che quel marito le dimostra arrivando al punto di chiederle di "amarlo di meno" - che Ilonka capisce. Judit, la domestica che la accoglie in casa, indossa un nastro identico a quello che ha trovato nel portafoglio di suo marito e al nastro è appeso un suo ritratto. Judit è la donna che Péter aveva amato molti anni prima, ora le chiede ancora di diventare sua moglie. Ma il secondo matrimonio gli rivelerà, sui veri sentimenti di Judit, qualcosa che non aveva mai sospettato. Un intreccio di passioni e menzogne, di tradimenti e di crudeltà.
Per vent'anni Eszter ha vissuto in una sorta di sonnambulismo una vita senza pericoli aspettando, senza saperlo, il ritorno di Lajos, il solo uomo che abbia mai amato. Un giorno Lajos torna: Lajos, il bugiardo, il falsificatore, il mascalzone. Lajos che l'ha ingannata sempre, che mente, che aveva detto di amare lei sola e poi aveva sposato sua sorella. Torna nella casa dove Eszter abita con una vecchia parente. Torna a prendersela. Ed Eszter lo sa, sa anche che la storia non è finita, perché non passano gli amori senza speranza.