Come definire una storia come questa? A prima vista potrebbe sembrare un romanzo fantastico, ma forse sfugge a ogni possibile definizione. Tabucchi l'ha sottotitolato "Un mandala", ma a ben vedere, con criteri tutti occidentali, si tratta in fin dei conti di un'inchiesta, una ricerca che sembra condotta da un Philip Marlowe metafisico. Ma con la metafisica, in questa ricerca spasmodica e pellegrina, si sposa un concetto tutto terrestre della vita: sapori, odori, luoghi, città, fotografie che sono legati al nostro immaginario, ai nostri sogni, ma anche alla nostra quotidiana esperienza. E allora? Nella sua nota Tabucchi suggerisce di pensare a un monaco vestito di rosso, a Hölderlin e a una canzone napoletana. Potranno forse sembrare degli ingredienti incongrui. Ma forse è meglio non cercare la congruenza in uno dei più stravaganti, visionari e insieme struggenti romanzi che la letteratura italiana ci abbia mai regalato.
Agosto 1938. Un momento tragico della storia d'Europa, sullo sfondo del salazarismo portoghese, del fascismo italiano e della guerra civile spagnola, nel racconto di Pereira, un testimone preciso che rievoca il mese cruciale della sua vita. Chi raccoglie la testimonianza di Pereira, redatta con la logica stringente dei capitoli del romanzo, impeccabilmente aperti e chiusi dalla formula da verbale che ne costituisce il titolo: Sostiene Pereira? Questo non è detto, ma Pereira, un vecchio giornalista responsabile della pagina culturale del "Lisboa" (mediocre giornale del pomeriggio) affascina il lettore per le sue contraddizioni e per il suo modo di "non" essere un eroe.
Dice Antonio Tabucchi: "Sono un viaggiatore che non ha mai fatto viaggi per scriverne, cosa che mi è sempre parsa stolta. Sarebbe come se uno volesse innamorarsi per poter scrivere un libro sull'amore". Eppure, in "Viaggi e altri viaggi" ci sono i luoghi del mondo, un mondo sufficientemente grande per non essere quel "villaggio globale" che vorrebbero i sociologi e i mass media. Vi entrano "alla rinfusa" la Lisbona di Pessoa, il Brasile distante dalle mete obbligate di Congonhas do Campo, la Madrid dell'Escorial, il Jardin des Plantes a Parigi, l'Australia di Hanging Rock, la Séte di Paul Valéry, e poi Creta, la Cappadocia, Il Cairo, Bombay, Goa, Kyoto, Washington. Tabucchi ci accompagna con sovrana gentilezza a conoscere e a riconoscere i luoghi di una mappa singolare, certo, ma condivisibile attraverso la lingua familiare del racconto. Una mappa che si apre volentieri ad "altre" forme di viaggio la rassegna delle città fantastiche degli scrittori, le letture di Stevenson, la misteriosa frase di uno zio davanti agli affreschi del Beato Angelico, le montagne di Eça de Queirós, l'Egitto di Ungaretti, l'evocazione dell'Amazzonia attraverso un grande libro come Il ventre dell'universo. Nell'uno e nell'altro caso - nei viaggi effettivi e in quelli evocati dalla letteratura - Tabucchi ci invita a vedere e a restare, a muoverci e a ritornare. Ogni volta l'appuntamento è una sorpresa, perché il mondo è sempre un altrove, una scoperta di noi stessi attraverso gli altri.
Tutti i personaggi di questo libro sembrano impegnati a confrontarsi col tempo: il tempo delle vicende che hanno vissuto o stanno vivendo e quello della memoria o della coscienza. Ma è come se nelle loro clessidre si fosse alzata una tempesta di sabbia: il tempo fugge e si ferma, gira su se stesso, si nasconde, riappare a chiedere i conti. Dal passato emergono fantasmi beffardi, le cose prima nettamente distinte ora si assomigliano, le certezze implodono, le versioni ufficiali e i destini individuali non coincidono. Un ex agente della defunta Repubblica Democratica Tedesca, che per anni ha spiato Bertolt Brecht, deambula senza meta a Berlino fino a raggiungere la tomba dello scrittore per confidargli un segreto. In una località di vacanze un ufficiale italiano che in Kosovo ha subito le radiazioni dell'uranio impoverito insegna a una ragazzina l'arte di leggere il futuro nelle nuvole. Un uomo che inganna la propria solitudine raccontando storie a se stesso diventa protagonista di una vicenda che si era inventato in una notte d'insonnia. I personaggi di questo libro disegnano l'ineffabile volto di una stagione. È la nostra epoca impietosa e futile, fatta di un tempo anfibio che non scandisce più la vita e del quale ci sentiamo ospiti estranei. Storie straordinarie che entrano in modo indelebile nel nostro immaginario, anche se non appartengono al piano dell'immaginario ma a una realtà di cui forse abbiamo perso il codice.
"Di tutto resta un poco" è il libro a cui Antonio Tabucchi ha lavorato, fino all'ultimo, in prima persona, malgrado la malattia e da dentro la malattia, condividendo ogni dettaglio con la curatrice e la casa editrice. È una raccolta di scritti meditata, appassionante, che prende le mosse da un memorabile "elogio della letteratura", di una letteratura capace di "ficcare il naso dove cominciano gli omissis". È inevitabile che, a partire da lì, dalla responsabilità delle parole per arrivare alla consolazione della bellezza, Antonio Tabucchi tocchi i temi più cari e insieme ai temi le opere e gli uomini (spesso amici) che lo hanno accompagnato. Ci sono gli autori frequentati con l'assiduità dello studioso (Pessoa e Drummond de Andrade, Kipling e Borges, Cortázar e Primo Levi), quelli sondati dalla veemenza della consuetudine (Daniele Del Giudice, Norman Manea, Enrique Vila-Matas, Mario Vargas Llosa e Tadahiko Wada), quelli più giovani, illuminati da una lungimiranza severa e affettuosa. E poi ci sono meravigliose pagine sul cinema, che tengono insieme il lirico omaggio alle ali di farfalla di Marilyn Monroe e la penetrante analisi della gag sovversiva di Almodóvar. "Di tutto resta un poco" è un libro che accende l'intelligenza, la curiosità, gli entusiasmi, come ci trovassimo di fronte alla mappa di un territorio che finalmente possiamo visitare, con la complicità e la guida dello scrittore che lo ha abitato, che lo ha costruito, che lo ha custodito per noi.
Lisbona, un fatidico agosto del 1938, la solitudine, il sogno, la coscienza di vivere e di scegliere, dentro la Storia. Un grande romanzo civile. Ventidue traduzioni all'estero, una memorabile interpretazione cinematografica di Marcello Mastroianni. Una storia che continua a suscitare il fascino e la meraviglia delle opere destinate a durare nel tempo.
Lisbona e il Portogallo sono teatro decisivo dell'immaginazione letteraria di Antonio Tabucchi. Con Lisbona Tabucchi firma un patto ideale attraverso l'amato Fernando Pessoa e il lavoro assiduo, durato tutta una vita, sull'opera del poeta. A Lisbona è legato dall'amore per la moglie Maria José De Lancastre e della realtà portoghese è stato, sempre, appassionato lettore. È lì, in questo Portogallo vissuto ma anche trasfigurato dall'invenzione letteraria, che rifluiscono le sue storie, i suoi fantasmi, la memoria del tempo storico e la memoria del tempo interiore. "Requiem" (1991), "Sostiene Pereira" (1994) e "La testa perduta di Damasceno Monteiro" (1997) testimoniano con straordinaria evidenza una stagione felicissima di scrittura e di impegno civile. Siamo di fronte a tre storie che, lette in sequenza, disegnano la trasparente complessità di motivi che danno forma e spessore all'avventura letteraria di Antonio Tabucchi. L'allucinato destarsi di figure che vengono, attraverso il sogno, a chiedere conto, il riscatto di un uomo mite messo dinnanzi all'urgenza di scegliere, il mistero di un delitto che suscita nuova ansia di giustizia in un uomo sconfitto ma non rassegnato. Con qualche libertà potremmo chiamarla "trilogia portoghese".
Protagonista Capitano Sesto: un uomo che attende di aprirsi, di conoscersi, di ritrovarsi sull'altra riva di un paese, l'Italia, sofferto e sofferente. Complice la metafora del "piccolo naviglio", Tabucchi immagina una rotta difficile da mantenere, una rotta implicita nella carta del romanzo che scrive, piccolo naviglio per eccellenza. Diceva il risvolto dell'edizione del 1978: "Sul suo scafo ci sono i grumi e le annotazioni del giornale di bordo delle generazioni che lo hanno preceduto e che egli tenta faticosamente di decifrare. Più decifrabile, il suo stesso giornale di bordo, l'Italia del dopoguerra vista con gli occhi attoniti e innocentemente dissacratori di un bambino e di un adolescente: le elezioni del Quarantotto, le madonne in lacrime, il perbenismo e l'ipocrisia, i primi saccheggi edilizi, l'autoritarismo, la repressione, gli entusiasmi per una Cuba remota e illusoria, l'angoscia e la solitudine. Insomma il bagaglio di una generazione nevrotica e orfana, la sua inquieta e talvolta dolorosa ricerca di una convinzione, di una ragione, di un padre putativo".
"Spesso la pittura ha mosso la mia penna. Se in un lontano pomeriggio del 1970 non fossi entrato al Prado e non fossi rimasto "prigioniero" davanti a Las Meninas di Velazquez, incapace di uscire dalla sala fino alla chiusura del museo, non avrei mai scritto 'II gioco del rovescio'. Lo stesso vale per l'enorme suggestione provata da bambino davanti agli affreschi del convento di San Marco, rivisitati spesso da adulto, che un bel giorno ritornò con prepotenza sbucando nelle pagine de 'I volatili del Beato Angelico'". Dalla suggestione di un'immagine, soprattutto dalla pittura, nascono questi racconti di Tabucchi. Ma a sua volta il racconto sembra catturare in un'altra dimensione le figure che lo provocarono: è quella contea fantastica dove, come scrisse Leopardi, "l'anima immagina quello che non vede". Così le figure sembrano risvegliarsi dalla loro immobilità, acquistano vita, da immagini diventano personaggi e interpreti delle loro storie. Suddiviso come un ideale spartito musicale (l'Adagio dove prevale la chiave della malinconia, l'Andante con brio per un'atmosfera più giocosa, le Ariette laddove il motivo è solo accennato e non eseguito) questo libro polifonico è anche il puro piacere del testo, un fuoco d'artificio narrativo, lo stupefacente cromatismo di un maestro riconosciuto del racconto.
In breve
"Un luogo non è mai solo 'quel' luogo: quel luogo siamo un po' anche noi. In qualche modo, senza saperlo, ce lo portavamo dentro e un giorno, per caso, ci siamo arrivati."… Un’opera specialissima, che sulla mappa del mondo allarga il mondo contiguo delle sterminate letture che hanno anticipato, provocato e sempre accompagnato i viaggi. I luoghi sono nomi, tappe, residenze. Ma quel che più conta è la civiltà del guardare, del rammentare, e del connettere i luoghi alla gente. L’andare e il sostare. Lo scoprire, insieme alla bellezza, la diversità del mondo.
Il libro
"Sono un viaggiatore che non ha mai fatto viaggi per scriverne, cosa che mi è sempre parsa stolta. Sarebbe come se uno volesse innamorarsi per poter scrivere un libro sull’amore." Ma certamente Antonio Tabucchi ha molto viaggiato. E dei suoi viaggi ha scritto. In sedi disparate e con un effetto sino a ora inevitabilmente dispersivo. Questo libro inverte la tendenza: chiama all’appello i luoghi visitati e rivisitati. E le scritture che li hanno raccontati. Le rimodella. Ne sortisce un’opera specialissima, che sulla mappa del mondo allarga il mondo contiguo delle sterminate letture che hanno anticipato, provocato e sempre accompagnato i viaggi. I luoghi sono nomi, tappe, residenze. Ma quel che più conta è la civiltà del guardare, del rammentare, e del connettere i luoghi alla gente. L’andare e il sostare. Lo scoprire, insieme alla bellezza, la diversità del mondo.
Lo si vede, Antonio Tabucchi, seduto sullo zoccolo della statua dell’abate Faria a Goa, in India; davanti al tempio di Poseidone a Capo Sunio, in Grecia; nel “cimitero marino” di Sète, in Linguadoca. E lì, con lui, condividiamo le reminiscenze del Conte di Montecristo, i versi di Sophia de Mello Breyner, il “mare che si ripete” di Paul Valéry. Lo si vede di notte spiare le grandi statue barocche dell’Aleijadinho a Congonhas do Campo, in Brasile, o lasciarsi ispirare da Cortázar nelle sale di Paleontologia del Jardin des Plantes a Parigi. E, ancora, si fa presenza affettuosa quando con semplicità ci conduce su per una certa strada, una piccola strada della “sua” Lisbona, e ci mostra l’evidenza di un sentimento (e di una parola) di non immediata comprensione: la saudade.
Nondimeno, la mappa ideale di questo libro si apre ai luoghi che visitiamo "per interposta persona": le città fantastiche degli scrittori, le geografie immaginarie, le storie letterarie. Nell’uno e nell’altro caso – nei viaggi reali come in quelli letterari – Tabucchi ci invita a muoverci e a ritornare. Ogni volta l’appuntamento è una sorpresa, perché il mondo è sempre un altrove, una scoperta di noi stessi attraverso gli altri.