Carl Schmitt e Hans Blumenberg erano due opposti speculari: il primo critico acuto e radicale della modernità, il secondo teorico della sua piena legittimità e autonomia. Ma entrambi interni alle correnti più innovative e originali della cultura contemporanea. Estraneo a ogni nostalgia tradizionalista il primo, alieno da ogni ingenua retorica progressista il secondo. Furono avversari scientifici, Hans Blumenberg e Carl Schmitt: le rispettive concezioni sul fondamento e la giustificazione delle pretese conoscitive dell'epoca moderna erano radicalmente differenti e la discussione a riguardo proseguì anche in una serie di lettere che si scambiarono tra il 1971 e il 1978. Tale corrispondenza e i testi ritrovati nel lascito di Blumenberg documentano una controversia assai significativa, da cui emergono scambi di tipo scientifico e biografico. Ma furono avversari "necessari" l'uno all'altro, come due interlocutori che sanno di trovare nel confronto con l'altro la propria vera "questione". La replica di Carl Schmitt ha influito in maniera decisiva sul rifacimento della "Legittimità dell'età moderna" di Blumenberg e ha lasciato tracce evidenti sino alla successiva "Elaborazione del mito". Per questo motivo la presente opera riporta brani da entrambi i volumi, oltre a tutto lo scambio epistolare, testi inediti provenienti da opere postume di Blumenberg ed estratti da altri saggi già pubblicati.
Come vivere, agire, lottare, morire quando si può contare solo su se stessi? È la sfida cruciale per un nuovo Illuminismo, inteso non solo come difesa di fronte al dispotismo, ma come compagno di strada anche per coloro che ancora avvertono il bisogno d'amore a cui un tempo si dava il nome di Dio. Da "ateo protestante", l'autore di questo libro non mira a dimostrare che Dio non c'è ma a definire l'orizzonte di un'esistenza senza Dio. Una vita, quindi, che prescinda da qualsiasi forma di sottomissione al divino, rifiutando rassegnazione e reverenza, ritrovando il piacere della sperimentazione nella scienza e nell'arte, e riscoprendo infine il gusto della libertà, soprattutto quando essa appare eccessiva alle burocrazie di qualsiasi "chiesa". Un ateismo non dogmatico che può essere utilizzato persino da ogni credente stanco della furia dei vari fondamentalismi che hanno sostituito al dono della Grazia del Signore il paesaggio desolato della repressione e dell'intolleranza.
L'estetica come disciplina filosofica nata a metà del Settecento si è caratterizzata in buona parte proprio per le sue esclusioni - conoscenza di ordine sensibile e non intellettuale, giudizio soggettivo privo di qualsiasi presa conoscitiva sull'oggetto, filosofia dell'arte e non della natura, contemplazione delle forme estranea a ogni interesse pratico, ... L'estetica di John Dewey si caratterizza invece proprio in termini "inclusivi". In che senso? Forse perché rivendica che gli aspetti estetici ineriscono alle nostre esperienze del mondo: dipendendo radicalmente da un ambiente per sopravvivere, innanzi tutto godiamo o patiamo per ciò che ci circonda
«Il mio mestiere è l'architettura. Mi sembra più esatto dire così che non ‘faccio l'architetto', perché l'architettura è una cosa difficile da avvicinare e io ho tentato di farlo con vari mezzi: progettare edifici, disegnare piani regolatori, collaborare alla redazione di leggi, scrivere libri o articoli di giornale, insegnare la storia dell'architettura. Non ho potuto ancora scegliere di fare una sola di queste cose, perché lo scopo che questa disciplina si pone, vale a dire migliorare anche solo di poco l'ambiente fisico in cui vive la gente, è troppo importante e difficile per tentare di raggiungerlo in un unico modo. Qualche volta è possibile costruire un piccolo pezzo di questo ambiente in un contesto accettabile; qualche volta bisogna tentare di correggere questo contesto, cioè aiutare l'amministrazione pubblica a fare i piani urbanistici; qualche volta invece si scopre che occorre prima rifare le leggi; e qualche volta ancora che non si può fare nessuna di queste cose e dunque non resta che riflettere e scrivere.»
Nell'"Etica endemia" il pensiero morale di Aristotele raggiunge la tensione speculativa più alta e la piena maturità. Posteriore all'"Etica nicomachea", questo trattato ne riformula le dottrine in una esposizione sintetica e al tempo stesso concettualmente e formalmente più rigorosa. Vi si trova, in particolare, una più solida analisi del rapporto fra la virtù etica e la contemplazione di dio, che porta Aristotele a delineare un profilo dell'uomo di straordinaria ricchezza. La paternità aristotelica dell'opera, a lungo dibattuta, è oggi riconosciuta dalla grande maggioranza degli studiosi e può considerarsi assodata. La presente edizione, condotta sul testo critico di Susemihl, è arricchita da una monografia introduttiva e da un ampio apparato di note filologiche e storiche.
Questa nuova traduzione dell'"Estetica" di Hegel assume come testo canonico l'edizione postuma curata da H. G. Homo, pubblicata tra il 1835 e il 1838. In nota al testo sono state inserite le varianti più significative tratte dal nuovo materiale di appunti e trascrizioni degli studenti relativo alle lezioni di estetica tenute da Hegel a Berlino nel 1820/1821, nel 1823 e nel 1826, di cui nell'ultimo decennio si è intrapresa la pubblicazione. L'"Estetica" di Hegel rappresenta lo sforzo più grandioso, per ampiezza e profondità, di attraversamento e comprensione storico-concettuale dell'arte nella civiltà occidentale. L'introduzione delinea lo statuto ontologico della dimensione artistica; segue una prima parte dedicata alla concatenazione sistematica delle varie forme dell'arte; da ultimo si traccia una visione complessiva dello sviluppo storico delle arti, inteso come movimento progressivo dello spirito verso la conoscenza di sé, scandito secondo tre periodi: simbolico, classico e romantico.
Il presente lavoro intende proporsi come un manuale per affiancare le lezioni di filosofia della religione nell'ambito di una Facoltà teologica. Si presenta con un'articolazione storico-ermeneutica, che comprende: un'introduzione di tipo epistemologico e metodologico; un'ampia rassegna storica delle principali posizioni e opere attinenti alla filosofia della religione, da Spinoza fino ai primi anni del XXI secolo; un capitolo dedicato agli "apporti indiretti" alla filosofia della religione, forniti non solo da filosofi, ma anche da psicologi e antropologi; un'antologia di testi difficilmente reperibili, alcuni dei quali sono presentati nella prima traduzione italiana; alcune schede concettuali su nuclei teoretici che possano avviare ad una sintesi sistematica. La destinazione del testo è eminentemente introduttiva e didattica.
La dimostrazione e il ragionamento formale possono avere validità in sé, senza riferimento a un destinatario. L'efficacia della persuasione non può invece essere studiata nella sua completezza senza sapere cosa rappresenti il parlante per l'interlocutore, senza tener conto delle circostanze in cui l'argomentazione si svolge. La verità è debole almeno in due aspetti molto evidenti: a) è possibile possedere la verità senza poterlo dimostrare (quante volte abbiamo vissuto l'esperienza di avere ragione senza che gli altri lo abbiano riconosciuto?); b) con la verità (con proposizioni vere) si può ingannare, corrompere, diseducare: la disinformazione più efficace è di solito quella che non dice altro che verità. Si dice che alla fine la verità vinca sempre: sono convinto che sia così, e Aristotele assicura che "la verità e la giustizia sono per natura più forti dei loro contrari". Tuttavia, se non vogliamo aspettare fino al giudizio universale, dobbiamo dotare la verità di maggior vigore. I due aspetti della sua debolezza ci riportano alla nozione aristotelica di retorica, "la facoltà di scoprire il possibile mezzo di persuasione riguardo a ciascun soggetto", che a me piace ridefinire "l'arte di far sì che la verità sembri vera". Non è poco! Che cosa non darebbe un genitore per essere in grado di presentare ai figli le cose in modo tale che essi le vedano nella maniera adeguata? Che cosa non darebbe un maestro? Che cosa non darebbe uno che si accinge a dichiarare il suo amore?
Per gli intellettuali cristiani del medioevo, studiare la storia della filosofia significava accogliere o rifiutare le dottrine dei grandi pensatori del passato alla luce di un più solido criterio di verità.
Indagare le forme della dimensione religiosa nel Novecento è un’impresa che non si riduce al solo interrogativo: che cos’è religione? A questo perlopiù si risponde rinviando a due modelli: religione come esperienza (Rudolf Otto) o religione come rivelazione (Karl Barth). Dovremmo però chiederci – ed è quanto si tenta in questo volume – sotto quali altre domande si ritrova il problema religioso, in senso lato come rapporto fra l’uomo e ciò che lo trascende. Questo rapporto si frammenta al di fuori della teologia, e persino nei modi in cui la filosofia più atea pensa l’uomo nel mondo si delinea un rinnovato senso del religioso. Vi sono state forme apocalittiche di pensiero come fuga dal presente – da Nietzsche in poi – che sono nomi diversi della stessa escatologia ebraico-cristiana, pur rovesciata e non religiosamente connotata. Comprendere la religione allora – accogliendo e sviluppando l’eredità del maestro Italo Mancini – significa qui non solo prendere sul serio l’appello dell’alterità, ma riflettere sulla storia e sulle sue negazioni. Così il libro si pone due obiettivi: da una parte ripercorrere i principali temi della teologia e filosofia della religione del Novecento, dall’altra decriptare la sfida della religione nei nostri tempi. Di qui la “trascendenza fra i tempi”: come a dire che nel tempo in cui sfumano i contorni della verità e il senso dell’agire, si avverte il richiamo all’evento della salvezza. Una salvezza che, con o senza Dio, chiede un impegno nel vivere la storia, il mondo, la Chiesa, la politica: è il principio responsabilità, che ha avuto grandi interpreti nella filosofia con Jonas e Ricoeur e nella teologia con Bonhoeffer, e che è un invito a mettere in gioco sin da ora il nostro futuro. Dove la stessa politica, simbolo della laicità del mondo, pare aprirsi al linguaggio della mistica, mutuandone le parole chiave, come annunciato da Maritain, Weil, Metz: la speranza di cambiare il mondo si affida a una prassi i cui momenti sono la resistenza ad esso e lo svuotamento di sé, capace di scorgere nell’altro, come in una risurrezione, il dischiudersi del nuovo.
COMMENTO: Come le teologie e le filosofie del '900 da Barth a Gadamer, da Berger a Mancini, hanno interpretato il fenomeno della religione nell'età della secolarizzazione.
PIERGIORGIO GRASSI già professore ordinario di Filosofia della religione nella Facoltà di Sociologia dell’Università degli Studi di Urbino, dal 1993 è direttore dell’Istituto di Scienze Religiose “Italo Mancini”. Fra le sue pubblicazioni: Teologia e filosofia. Un itinerario nel Novecento (QuattroVenti, 1992); Figure della religione nella modernità (QuattroVenti, 2001). Dirige la rivista «Hermeneutica» (Morcelliana) e la rivista «Dialoghi».
Se dovessimo esprimere in un concetto l’interesse focale dell’intera indagine di Levinas, questo potrebbe dirsi il senso dell’“umano”. Un’idea dell’“umano”, scandagliata da ebreo e da filosofo senza però confondere mai le due anime, come “incondizionato”: non l’assoluto filosofico – quell’astrazione somma che riconduce a sé tutte le cose – ma ciò che sfugge a ogni sorta di “condizione”. L’umano si dà nella coscienza, è ciò che ci fa esseri incarnati che vogliono, pensano, amano, vivono; ma è eccedente perché il suo senso viene dall’altro. L’analisi levinasiana attraversa la fenomenologia di Husserl e Heidegger, come operazione di rischiaramento e comprensione, ma il suo sguardo va al di là dell’ontologia e si fa etica in quanto filosofia prima.
In questa prospettiva, il volume inanella uno ad uno i suoi nodi fenomenologici decisivi, ricostruendo la fenomenologia del sonno, della passività, dell’attività, del corpo, dello spazio, del volto, della coscienza morale, della parola, del tempo. Un arcipelago di significati dell’umano “senza condizioni” che, superando il modello cronologico, funge da introduzione alla filosofia di Levinas e alle sue opere maggiori. Pagine che cercano di restituire la sensibilità esistenziale con cui Levinas esplora i luoghi filosofici dell’umano – servendosi di un linguaggio capace di mutare lo stesso vocabolario della filosofia del ’900 – e al contempo vanno al cuore delle sue categorie.
COMMENTO: Un ritratto di Levinas a tutto tondo che presenta il suo pensiero come filosofia fenomenologica: tornare alle cose stesse significa comprendere l'altro come rivelazione. Di qui la famosa elaborazione dell' "etica come filosofia prima", dove in primo piano è l'esser uomo.
MARIO VERGANI è ricercatore di Filosofia teoretica all’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Tra le sue pubblicazioni: Fatticità e genesi in Edmund Husserl (La Nuova Italia, Firenze 1998), Jacques Derrida (Bruno Mondadori, Milano 2000), Dell’aporia (il Poligrafo, Padova 2002) e Dal soggetto al nome proprio. Fenomenologia della condizione umana tra etica e politica (Bruno Mondadori, Milano 2007). Ha curato e tradotto opere di Husserl e Nancy ed è autore di numerosi saggi per riviste italiane e internazionali.