«Pensiero concretissimo, pensiero che ha illuminato l'essenza del nostro presente più di centurie di economicismo e sociologismo. Che ne ha messo in luce il radicale, compiuto nihilismo, che lo ha affrontato nelle sue origini storiche e metafisiche. Il nihilismo che ci mette costantemente in debito, abitanti una vita che non è nostra, che è destinata a dissolversi come dal nulla è venuta. Il nihilismo che non ci permette neppure di pensare alla Gioia, alla Gloria, all'Eterno. Inattualità poderosa, monumentale della grande opera di questo Maestro. Cosa è possibile comprendere del dramma dell'epoca se non si legge Heidegger contra Severino? Manca il controcanto a tutte le correnti fondamentali della filosofia o post-filosofia del Novecento, se non si comprende Severino... di Verità era affamato Severino. E questa fame ha cercato, disperatamente forse, di comunicarci lungo tutta la sua vita, con le migliaia e migliaia delle sue pagine che vivono e vivranno». (Massimo Cacciari)
Grazie a Emmanuel Mounier il discorso sulle "dimensioni della persona" è entrato a pieno titolo nell'antropologia filosofica contemporanea. Eppure, ad oggi, non abbiamo ancora uno studio completo che faccia pienamente luce sul suo sviluppo storico e significato speculativo. Con il presente studio l'autore fa un passo decisivo nella direzione di tale chiarimento storico e teoretico. L'antropologia delle dimensioni della persona, frutto prezioso dell'antropologia contemporanea, appare in questo lavoro nella sua piena valenza speculativa, rivelando in pari tempo un versante educativo e una vocazione al dialogo con quanti oggi hanno a cuore la questione antropologica.
Questo volume raccoglie gli Atti dei tre convegni dedicati a San Bonaventura in prossimità dell'ottavo centenario dalla sua nascita e organizzati dalla Cattedra Marco Arosio e la Facoltà di Filosofia dell'Ateneo Pontificio Regina Apostolorum. La prima parte del volume (La teologia della storia in san Bonaventura, 15-16 aprile 2015) riguarda la teologia della storia del Dottor Serafico, riconosciuta la sua originalità speculativa a partire dagli studi di J. Ratzinger e convenientemente impreziosita da un rescritto del Papa emerito. La seconda parte (La scuola teologica francescana del secolo XIII, 7-8 aprile 2016) incornicia Bonaventura nel contesto teologico francescano del suo tempo, mentre la terza (La ricezione di san Bonaventura nel pensiero del Novecento, 26-27 aprile 2017) guarda agli influssi potenti esercitati dal Nostro su teologi e filosofi di prim'ordine del Novecento.
Internet ci rende stupidi? Abituati alla velocità con cui accediamo alle informazioni scivolando, come su una tavola da surf, da un sito all'altro, viene meno in noi la pazienza richiesta da un libro o da un articolo lungo e complicato. Dopo una pagina o due ci innervosiamo, perdiamo il filo, avvertiamo l'esigenza di occuparci d'altro, di cambiare attività. La concentrazione nella lettura ci è divenuta estranea. Oggi l'umanità è totalmente connessa. E quindi: che fare con la novità rappresentata dalla rete, e in generale dalla civiltà digitale? Accettarla o rifiutarla? Per rispondere a questa domanda dobbiamo compiere un viaggio di duemila anni. Ermanno Bencivenga ci accompagna lungo questo cammino nella storia del pensiero occidentale: Platone è la nostra guida, Kant la stella polare. È un tragitto di secoli e millenni di idee e scoperte straordinarie e addirittura scandalose, eppure capaci di conquistare la normalità e tradursi in visioni del mondo universali. Così scopriamo che la nostra identità è stata messa in discussione ad ogni rivoluzione tecnologica. Ciascun cambio di paradigma sconvolge e rinnova la radice delle nostre consuetudini e dei nostri desideri. Ogni giudizio di valore è subordinato a una particolare fase del tempo, del mondo e della Storia. Allora, la domanda va riformulata: la rivoluzione digitale non ci rende più stupidi o più intelligenti, ma cambia profondamente la nostra postura nei confronti di noi stessi e del mondo. E ogni cambiamento radicale è un'occasione preziosa e insostituibile per chiederci chi siamo.
Tra il 1917 e il 1919 Max Weber tenne due conferenze dal titolo Die geistige Arbeit als Beruf, che potremmo tradurre «Il lavoro dello spirito come professione». Formulazione quanto mai pregnante, perché rappresentava l'idea regolativa, il progetto e la speranza che avevano animato il mondo della grande cultura borghese tra Kant e Goethe, tra Romanticismo e Schiller, tra Fichte e Hegel, e avrebbero costituito il filo conduttore dello stesso pensiero rivoluzionario successivo, da Feuerbach a Marx. Il «lavoro dello spirito» è il lavoro creativo, autonomo, il lavoro umano considerato in tutta la sua attuosa potenza, e volgersi alla sua affermazione significa liberazione di ogni attività dalla condizione di lavoro comandato, dipendente, e cioè alienato. Ma il suo dissolversi nella forma capitalistica di produzione, nell'universale macchinismo, che fagocita quella Scienza che pure è l'autentico motore dello sviluppo, finisce col delegittimare la stessa autorità politica, che nella «promessa di liberazione» trova il proprio fondamento. La «gabbia di acciaio» è destinata dunque a imprigionare anche quel «lavoro dello spirito» che è la prassi politica? Lo spirito del capitalismo finirà col destrutturare completamente lo spazio del Politico, riducendolo alla forma del contratto? O tra Scienza e Politica sono ancora pensabili e possibili relazioni che ci affranchino dal nostro «debito» nei confronti del procedere senza mete né fini del sistema tecnicoeconomico? Sono le attuali domande che, un secolo fa, nessuno ha posto con la drammatica chiarezza di Max Weber - e con le quali, oggi, Massimo Cacciari si confronta.
Le virtù non godono di buona fama. E, fra le virtù, l'umiltà è associata a tempi e stili lontani, quando si credeva di dare gloria a Dio umiliando se stessi o più spesso gli altri. Questa virtù impopolare potrebbe, invece, essere di grande utilità per tempi incerti. Ci ricorda che siamo di terra, che non siamo Dio, che fra i nostri desideri, i nostri propositi e la realtà si frappongono ostacoli, difficoltà, fallimenti. Ciò può spaventare ma anche rassicurare. Può insegnarci un gesto difficile: fare un passo indietro, per fare spazio ad altro e ad altri; a volte anche per fare spazio a noi stessi. Ci può aiutare anche a fare un passo avanti, insegnando l'arte di mettere un piede dopo l'altro, nella semplicità, nel metodo, nella concretezza. Due donne - una filosofa e una teologa - si confrontano sul tema di questa virtù fuori moda, estraendo dalla grande tradizione occidentale, filosofica, teologica e monastica, spunti e prospettive.
Ultima opera che Ágnes Heller concluse prima della sua scomparsa, questo libro ricostruisce la storia culturale dell'Occidente negli intrecci fra produzione drammaturgica e riflessione filosofica. Sin dalla loro nascita, tragedia e filosofia sono unite da un'"affinità elettiva": la tragedia rappresenta le tensioni che caratterizzano un dato presente storico e ne introduce la sua comprensione filosofica. A sua volta la filosofia, pensando il proprio tempo (Hegel), pone nuovi concetti e scenari che faranno da materiale per successive rappresentazioni drammaturgiche, in una mutua influenza che imprime movimento all'intero sviluppo storico. Antigone, Amleto, Fedra, la Nora di Ibsen, il Galileo di Brecht condividono il palcoscenico di questo libro con l'etica aristotelica, la teoria secentesca delle passioni, l'utopia marxiana, l'esistenzialismo, la decostruzione. Solo attraverso questa profonda e originale ricomposizione è possibile porre la domanda sul futuro di filosofia e tragedia - e tentare di rispondere.
Un quadro suggestivo dell'evento epocale che ha già segnato il ventunesimo secolo. Dalla questione ecologica al governo degli esperti, dallo stato d'eccezione alla democrazia immunitaria, dal dominio della paura al contagio del complotto, dalla distanza imposta al controllo digitale: come sta già cambiando l'esistenza, quali potranno essere gli effetti politici nel futuro. Il coronavirus è un virus sovrano che aggira i muri patriottici, le boriose frontiere dei sovranisti. E rivela in tutta la sua terribile crudezza la logica immunitaria che esclude i più deboli. La disparità tra protetti e indifesi, che sfida ogni idea di giustizia, non è mai stata così sfrontata. Il virus ha messo allo scoperto la spietatezza del capitalismo e mostra l'impossibilità di salvarsi, se non con l'aiuto reciproco, costringendo a pensare un nuovo modo di coabitare.
Mai come in questo momento, connotato da una minaccia sempre più pressante e diffusa, la richiesta di immunizzazione sembra caratterizzare tutti gli aspetti della nostra esistenza. Quanto più si sente esposta al rischio di infiltrazione e di contagio da parte di elementi estranei, tanto più la vita dell'individuo e della società si chiude all'interno dei propri confini protettivi. Tuttavia, questa opzione immunitaria ha un prezzo assai alto: come il corpo individuale, anche quello collettivo può essere «vaccinato» dal male che lo insidia soltanto attraverso la sua immissione preventiva e controllata. Ciò vuol dire che, per sfuggire alla presa della morte, la vita è costretta a incorporarne il principio. A sacrificare la «forma» del vivente alla sua semplice sopravvivenza biologica. Ormai questo meccanismo dialettico tra conservazione e negazione della vita sembra pervenuto a un punto limite: al di là del quale si apre la drammatica alternativa tra un esito autodistruttivo e una possibilità ancora inedita che ha al centro un nuovo pensiero della comunità.
«Esiste uno scandalo del bene, che ci dovrebbe sorprendere almeno quanto lo scandalo del male, che ne è il rovescio». Qual è l'essenza del bene? E in che modo può essere il risultato della nostra azione e l'oggetto del nostro desiderio? Il bene etico - spiega Boulnois in questa breve riflessione - non è un concetto, ma innanzitutto ciò che facciamo con rettitudine; dipende da noi, dalla nostra azione, dal nostro comportamento. Poiché esso è desiderabile, ci appare come buono. E poiché lo desideriamo, lo facciamo. Lo stesso bene può infatti designare l'oggetto del nostro pensiero, lo scopo dei nostri desideri e il risultato delle nostre azioni azioni.
Agli "ideali ascetici" Friedrich Nietzsche ha notoriamente dedicato una durissima requisitoria nella terza dissertazione della sua Genealogia della morale. Eppure, ad un'analisi più dettagliata, non è possibile ritrovare, in questo testo, neanche una singola occorrenza della parola "ascesi". È davvero possibile che il filosofo (e filologo classico) di Röcken abbia omesso casualmente una parola come askesis, tanto centrale per il pensiero filosofico greco, dal suo scritto polemico? Oppure il concetto di ascesi va interpretato in maniera differente rispetto a quello di "ideale ascetico", andando così a creare una costellazione teorica più complessa rispetto a quella che sembra configurarsi in un primo momento? Il presente lavoro si ripropone di effettuare una ricostruzione e discussione critica delle molte declinazioni dell'ascetismo presenti nel pensiero di Friedrich Nietzsche, tanto nelle opere a stampa quanto nei frammenti postumi: dall'ascesi greca di Pitagora e Orfeo, passando per quella (talvolta valorizzata, talvolta criticata) di Schopenhauer, fino ad arrivare alla decostruzione dell'ideale ascetico nella Genealogia della morale verranno prese in considerazione quelle che andranno a configurarsi come le molte ascesi di Nietzsche.
La nostra è una società libera? Le dittature che hanno caratterizzato così duramente il secolo scorso sono davvero e per sempre scomparse?Per rispondere a queste domande Onfray si basa sull'analisi di due straordinarie opere di George Orwell: "1984" e "La fattoria degli animali", testi capitali per comprendere i maggiori totalitarismi del Novecento, lo stalinismo e il nazionalsocialismo. Ma l'intento di Onfray è di utilizzarli come strumenti per l'interpretazione dell'oggi: a partire da essi, l'autore descrive sette «fasi» o «comandamenti» necessari e sufficienti a far sì che il pericolo di una dittatura si realizzi concretamente: distruggere la libertà; impoverire la lingua; abolire la verità; sopprimere la storia; negare la natura; propagare l'odio; aspirare all'Impero. Ciascun comandamento viene poi analizzato in dettaglio nelle sue implicazioni, che l'autore definisce «principi», trentatré in tutto; a titolo di esempio, Praticare una lingua nuova, Usare un linguaggio a doppia valenza, Distruggere parole, Piegare la lingua all'oralità, Parlare una lingua unica, Eliminare i classici sono i principi del «comandamento» Impoverire la lingua. Attraverso un'argomentazione lucida, mai pessimista ma brillante, Onfray dipinge il ritratto di un'epoca, la nostra, che sembra aver smarrito ogni saldo riferimento e procede senza apparenti ostacoli verso la dittatura prossima ventura.