«Merito di Vivarelli è di avere mostrato tutta la complessità del quadro, in un'indagine che esige lettori attenti, curiosi, che non si accontentino» Roberto Pertici In questa fondamentale opera in tre volumi che ha accompagnato per più di cinquant'anni il suo itinerario intellettuale e umano, Roberto Vivarelli rilegge la storia dell'Italia postunitaria mostrando come il fascismo sia il frutto, non la causa, delle debolezze dello Stato liberale, incapace di gestire la propria trasformazione in Stato democratico dopo l'avvento del suffragio universale. Orientata da tale ipotesi interpretativa e sorretta da una rigorosa documentazione, questa opera è molto più di una cronaca delle vicende italiane tra il 1918 e il 1922: al di là della guerra, infatti, il problema delle origini del fascismo trova qui la sua definizione nell'intero contesto della storia politica, istituzionale e sociale dell'Italia dopo l'Unità. Questo terzo e ultimo volume prende le mosse dalla «rinascita dei Fasci», dopo la sconfitta elettorale del novembre 1919 e la successiva crisi organizzativa e ideologica, e si conclude nel novembre del 1922, con Mussolini che presenta il suo governo e il suo programma politico, prima alla camera a poi al senato.
Sul finire del XIX secolo, mentre le grandi potenze europee si spartiscono il continente africano, re Leopoldo II del Belgio si impossessa di un vasto e inesplorato territorio lungo il fiume Congo. E mentre a livello internazionale si costruisce una reputazione di grande filantropo, dà in realtà inizio a una delle più brutali colonizzazioni della storia riducendo in schiavitù la popolazione locale, saccheggiandone le ricchezze e portando avanti un genocidio che costa la vita a oltre dieci milioni di persone. Gli spettri del Congo è il racconto di un uomo dalla crudeltà megalomane e mostruosa, ma è anche il ritratto commovente di quanti hanno avuto il coraggio di combatterlo. Porta infatti alla luce le gesta eroiche di missionari, viaggiatori, idealisti diventati testimoni del terribile olocausto: da Edmund Morel, il giovane dipendente di una compagnia di navigazione diventato guida del movimento internazionale di protesta, a George Williams e William Sheppard, i due coraggiosi afroamericani che a rischio di enormi pericoli hanno mostrato al mondo le prove di quanto stava succedendo in quella regione dell'Africa. Con grande forza Adam Hochschild pone nuovamente sotto gli sguardi e le coscienze dell'Occidente una tragedia troppo a lungo dimenticata, che scava alle origini del razzismo e del colonialismo di oggi.
Tra il 1985 e le due importanti visite di Stato del 1988 e 1989 prende forma la peculiare posizione del governo italiano nei confronti del tentativo riformista in atto in URSS, posizione che lo distingue dagli altri componenti del G7. Ne è protagonista Andreotti, che giudicava l'evoluzione del comunismo gorba?ëviano un fenomeno complessivamente positivo per la società sovietica e per la politica internazionale, condividendo in grande misura la visione moderata del «sistema di mercato» e la critica di quelle che Gorba?ëv ancora chiamava le «contraddizioni del capitalismo». Soprattutto, come sottolinea Silvio Pons, Andreotti condivideva con il presidente sovietico la visione di un futuro ordine bipolare senza la Guerra fredda: una visione «legata a un mondo in dissoluzione» che faceva proprio consapevolmente «il problema di costruire un'architettura nelle relazioni tra l'Europa e la Russia/URSS», il cui fallimento corrispose alla rimozione della «coscienza stessa del problema». Passata la prova di eventi epocali come il crollo del muro di Berlino, la riunificazione tedesca, la prima Guerra del Golfo, quella sintonia e il disegno strategico di cui era espressione si sarebbero infatti infranti nella fine dell'Unione sovietica del dicembre 1991.
Vi è un protagonista che ha attraversato per mezzo secolo le vicende eversive italiane. Lo troviamo a fianco del presidente degli Stati Uniti e seduto al tavolo da poker con Buscetta, nella fondazione di una massoneria universale e tra i congiurati della Rosa dei Venti, vicino a Junio Valerio Borghese e in rapporti con vertici militari, della diplomazia e degli affari. È il principe palermitano Gianfranco Alliata di Montereale, uscito indenne dalle vicende penali che lo videro coinvolto a partire da quando il suo nome risuonò tra i mandanti della prima strage della Repubblica, l'eccidio di Portella della Ginestra, essendo stato il suo accusatore avvelenato per tempo in una cella dell'Ucciardone. Un'esistenza rimasta nell'ombra, su cui fa luce il saggio di Giovanni Tamburino, il magistrato che nel 1974 a Padova condusse l'inchiesta contro la struttura eversiva di stampo neofascista denominata Rosa dei Venti. Il volume attinge a una ricca documentazione inedita, custodita nell'Archivio storico della Camera, ad atti giudiziari, a fondi archivistici finora inesplorati.
Questo volume costituisce il primo tentativo di scrivere una storia comparata della presenza dei cattolici nelle Resistenze dei vari paesi europei. Basata su un'ampia storiografia in più lingue e sulla rilettura della stampa clandestina, oltre che di svariate testimonianze, la ricostruzione delle vicende di paesi come Francia, Belgio, Paesi Bassi, Germania e Austria, Cecoslovacchia e Polonia consente di presentare ai lettori italiani figure di uomini e donne talvolta sconosciuti persino agli storici specialisti. L'analisi segue il filo del rapporto tra cattolici, fede religiosa e ricorso alla violenza. In questa prospettiva intende contrastare la tentazione ricorrente di applicare ai cattolici di allora le categorie dell'oggi, come il pacifismo o l'obiezione di coscienza, insieme all'accusa di essere stati imbelli e "attendisti". L'educazione cattolica di allora non disdegnava infatti di formare anche al dovere militare. Il problema, semmai, era quello della legittima autorità cui obbedire. Queste pagine contribuiscono così a bilanciare la tendenza storiografica che, nel corso degli ultimi decenni, ha posto in primo piano la Resistenza civile, senza armi, a scapito di quella - che pure ci fu - combattente.
L'8 settembre 1943, con l'occupazione nazista del nostro Paese, poco meno di un milione di militari italiani vennero disarmati e catturati dai tedeschi. Alcuni riuscirono a dileguarsi nel caos di quelle settimane, alcuni - una volta entrati nei campi di prigionia - aderirono alla Repubblica sociale italiana e tornarono in Italia. Ma la stragrande maggioranza, circa 600.000, preferì rimanere nei campi di prigionia piuttosto che aderire alla Rsi. Colpito dal rifiuto dei prigionieri, nell'estate del 1944 Hitler li trasformò in 'lavoratori volontari', ovvero coatti. Per le pessime condizioni di vita nei campi, circa 50.000 persero la vita. Gli Internati militari italiani (Imi), dunque, furono protagonisti del primo 'referendum antifascista', ma hanno sempre fatto fatica a trovare un riconoscimento nella memoria della guerra e della Resistenza e in questi ultimi anni sono diventati un oggetto di contesa politica. Il loro 'No' al fascismo di Salò è stato depotenziato di ogni valore morale e politico. Sono tornati a essere dei prigionieri e non dei 'resistenti senz'armi'. Un esempio di 'battaglia sulla memoria' nella quale la Resistenza rischia di essere di nuovo accantonata.
Un'«archeologia del presente» dedicata al Novecento italiano in tutta la sua inquietudine e complessità. Un libro che attraverso il prisma di contrapposizioni insieme artistiche, politiche e religiose, indaga il problema della difficile sopravvivenza della cultura italiana dopo la prima e la seconda Guerra mondiale; e i rapporti tra «nazione politica» e «nazione culturale», laicismo e Chiesa. Sfilano qui artisti, scrittori, critici di orientamento ideologico diverso, da Berenson a de Chirico, da Gobetti a Persico, da Carlo Levi a Pasolini a de Martino, da Burri, infine, a Fontana e Carla Lonzi, accomunati però da un'esperienza ambivalente della storia e dall'interesse per l'eredità cristiana. La ricerca si muove così su territori inesplorati: non l'arte sacra di tradizione, ma il primo e secondo Novecento, nel cuore di quel laboratorio artistico, politico e sociale che chiamiamo «modernità». In un testo che intreccia storia dell'arte a letteratura e pensiero politico e religioso, Dantini prova a tenere insieme le due metà del secolo - pur divise tra loro da laceranti cesure istituzionali e culturali - e suggerisce una nuova cornice agli studi sul Novecento in Italia.
Il 12 settembre 1919 Gabriele D'Annunzio, alla testa di un gruppo di ribelli, granatieri, bersaglieri, cavalleggeri, arditi del Regio esercito italiano, occupa la città di Fiume. Dura poco più di un anno il governo retto dal Poeta, costretto alla resa nel Natale del 1920 dal Trattato di Rapallo che Giolitti firma con il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni. Alessandro Barbero, capace come pochi di trasformare la storia in un racconto entusiasmante, descrive, in questo romanzo, l'incredibile impresa del Poeta Soldato che sogna di vivere al di sopra di ogni immaginazione, come un grande d'altri tempi. Il «Comandante» è ritratto negli ultimi giorni della Reggenza del Carnaro attraverso gli occhi di Tom Antongini, amico e segretario di D'Annunzio a Fiume. Tom nel 1944 da Salò rievoca gli eventi vissuti in prima persona, sempre a fianco del Vate. Ed è una narrazione ironica, comprensiva, attraversata ora da ammirazione ora dal dubbio, che tratteggia un Gabriele stanco e malinconico per la vecchiaia che avanza, eppure sempre audace, donnaiolo, sperperatore, talvolta tanto preso da se stesso da apparire quasi inconsapevole delle concrete conseguenze della sua azione. Ma è soprattutto un D'Annunzio spiazzante che da un lato nutre i primi caratteri del fascismo - tra le file dei suoi ribelli si chiacchiera già di marciare su Roma -, dall'altro si circonda di socialisti, bolscevichi e sindacalisti. È il primo capo di Stato a riconoscere l'Unione Sovietica, e a sua volta guardato in questa impresa con simpatia da Lenin. A Fiume si realizzano non solo le manie estetizzanti del Vate, ma anche, a dispetto del personaggio, politiche volte a cercare di risolvere i contrasti sociali: la costituzione promulgata è libertaria, emancipata e anticipa molti valori della società contemporanea. Un romanzo pubblicato per la prima volta nel 2003, in cui Barbero dipinge un D'Annunzio nei suoi piccoli atti, non ultimi quelli legati alla seduzione che mostrano l'umanità più fragile di Gabriele: prima che scada il suo tempo a Fiume non restino impuniti alcuni feroci sfruttatori di donne. Con una scrittura in grado di strappare un sorriso per le irriverenze e stravaganze del poeta, il ritratto di un eroe decadente, triste e deluso davanti al grande peso della Storia.
Grande fu il contributo che italiani e italiane animati dalla fede cristiana hanno reso alla Resistenza tra il 1943 e il 1945. Il loro apporto, cosi consistente, è qui ampiamente documentato sulla scorta di una ricerca storica che si è avvalsa del lavoro sul campo attingendo a testimonianze, lettere e memorie civili. Non si riscontra nel saggio alcun intento polemico né il tentativo di strumentalizzare quel movimento popolare. A partire da fatti, numeri, volti e atti di eroismo e di martirio, emerge una storia di popolo che merita di essere ritrovata e raccontata. La Resistenza è stata anche cristiana, nella misura in cui vi hanno partecipato uomini e donne la cui coscienza era mossa dalla fede non meno che dal patriottismo. Erano tanti, patrioti e fratelli al di là dei luoghi, della notorietà e degli atti compiuti. L'apparato iconografico è parte documentale del saggio: le immagini sono talvolta piccole, sbiadite, rovinate ma sempre eloquenti. II lettore resterà impressionato dalla giovinezza e dall'innocenza dei volti dei protagonisti di questo spaccato di storia, una rassegna che unisce veri e propri condottieri a uomini sconosciuti e miti che hanno incontrato il martirio nell'eroico e disarmato esercizio della carità.
Alberto Leoni ha tradotto la storia del Risorgimento italiano scritta da Patrick Keyes O’Clery, con il titolo La Rivoluzione italiana (2000). Tra i numerosi titoli pubblicati con Ares: La croce e la mezzaluna (2007), Il paradiso devastato. Storia militare della campagna d'Italia (2012), "O tutti o nessuno!". Storia e ritratti dei 123 sacerdoti e religiosi morti in Emilia Romagna nella Seconda guerra mondiale (2020).
Stefano Rodolfo Contini, laureato presso la facoltà di Scienze politiche dell'Università di Milano, ha frequentato un master di primo livello in Security Studies presso l'Institute for Global Studies (Roma), organizzato in collaborazione con lo Stato Maggiore della Difesa.
Secondo Plinio il Vecchio, se la 'vitalitas' dell'uomo risiede nelle ginocchia, la memoria risiede «nell'orecchio». Relegare questa affermazione nello sgabuzzino delle curiosità sarebbe un errore. «La memoria dell'orecchio» infatti ha l'immediato potere di svelarci uno dei fattori determinanti nella formazione della cultura romana, la parola parlata. I Romani cioè, e molte altre testimonianze ce lo confermano, sono ancora consapevoli del fatto che i costumi, le norme, i rituali, il ricordo del passato si tramandano (e si ricostruiscono) per via aurale. Come recita un proverbio ghanese «le cose antiche stanno nell'orecchio». A Roma non solo la produzione letteraria, ma anche il diritto, la pratica dello 'ius', viveva di «parola parlata», tanto che ai caratteri dell'alfabeto essa oppose spesso un'abile resistenza. E che dire del destino, concepito non come una «porzione» di vita ('móira'), alla maniera dei Greci, ma come una «parola», 'fatum', pronunziata dall'una o l'altra divinità? Perfino la norma indiscutibile e suprema che regolava il giusto e l'ingiusto, il lecito e l'illecito, ossia il 'fas', traeva origine da questa sfera: 'fas est', celebre e solenne locuzione romana, altro non significava se non «è parola che», proprio come molti secoli dopo si dirà «sta scritto che». Anche a Roma, però, la parola è soprattutto un evento sonoro. Come rivela la meravigliosa tessitura di «armonie foniche» che avvolgeva gli enunciati della produzione poetica, religiosa e giuridica di Roma arcaica: «armonie foniche», così le definì il grande Ferdinand de Saussure, che fu tra i primi ad appassionarsene.
Con il piglio del cronista e con il rigore dello storico, Alessandro Marzo Magno ci accompagna in una passeggiata lungo i secoli per ricostruire la storia che ha portato alcune isolette della laguna adriatica a dominare per secoli mezzo Mediterraneo, e non solo. Una storia di Venezia come questa non la si è mai letta: ogni capitolo si apre con un reportage che racconta come oggi si presenti un luogo simbolo della Serenissima. Il libro ci porta in alcuni dei centri più importanti dello stato da Mar: Famagosta, Cipro, dove nel 1571 è stato scuoiato vivo Marcantonio Bragadin; Heraklion, Creta, assediata per 22 anni dagli ottomani; Zara, la città dalmata che nel 1204 i crociati conquistano per pagarsi un passaggio in nave verso Costantinopoli. Lo stato da Terra è raccontato, tra gli altri luoghi, dal Pizzo dei Tre Signori, la montagna che per tre secoli ha segnato il confine tra Venezia, Milano e la Svizzera; dall'università di Padova, 800 anni nel 2022; da Palmanova, fortezza sì, ma anche città ideale del rinascimento. La storia di Venezia non si ferma con la caduta della repubblica, nel 1797; queste pagine continuano con l'Ottocento, quando la città diventa un importante centro industriale, e arrivano all'oggi, con lo spopolamento che rischia di farla scomparire.
Perché corriamo? Perché tutto questo affannarsi e faticare? Cosa racconta di noi questa continua ricerca di muscoli e sudore? Ancora una volta dobbiamo risalire il tempo e tornare ai Greci, i primi che si chiesero perché mettiamo alla prova noi stessi misurandoci contro gli altri. Il famoso motto mens sana in corpore sano dice del valore che gli Antichi attribuivano a tali prove, tanto che le Olimpiadi erano l'unico periodo in cui le armi dovevano necessariamente tacere. Andrea Marcolongo, dopo anni trascorsi tra libri e grammatiche a provare a 'pensare come pensavano i Greci', ha cominciato ad allenarsi e ha provato a 'correre come correvano i Greci'. E lo ha fatto utilizzando come strumento di accompagnamento il primo manuale di sport della storia, il "De arte gymnastica" del filosofo Filostrato. Fino al folle proposito finale: correre una maratona, anzi, la maratona, i 41,8 km che separano Maratona da Atene percorsi duemilacinquecento anni fa dal soldato Filippide, prima di stramazzare a terra per la troppa fatica.