Marcel Schwob ha scritto che se Boswell fosse riuscito a concentrare in dieci pagine la sua monumentale "Vita di Samuel Johnson", avrebbe dato alla luce l'opera d'arte tanto attesa. Quasi raccogliendo la sfida, Giorgio Manganelli scrisse nel 1961 questo trattatello, che rappresenta una 'biografia sintetica' e insieme un ritratto collettivo dove - sullo sfondo di una Londra torva e sordida, ma amatissima - accanto a Johnson figurano i suoi più cari amici: Richard Savage, scrittore fallito, sregolato e ribaldo, Topham Beauclerk, ilare e irresponsabile libertino, e naturalmente James Boswell, autore di un "calco letterario fedele fino alla allucinazione" del modo di essere del Dottore. Uomini dalla prensile passionalità, capaci di offrirgli un'immagine già vissuta e intellettualizzabile dell'esistenza: l'ideale per lui, che ambiva a essere "esperto e incorrotto". Ma il Johnson di Manganelli è ancora di più: il primo eroe di una civiltà di massa, un divo ammirato e amato per il fatto stesso di esistere, di conglomerare con la sua bizzarria e la sua sarcastica conversazione ascoltatori e spettatori. Ed è, anche, un perturbante alter ego, soprattutto laddove di Johnson appare nel lato più segreto: la malinconia, l'ipocondria, l'infelicità, fieramente combattute con il lavoro, con "i doveri dell'intelligenza, presidio della chiarezza interiore e dunque della moralità".
Dal banco di un negozio di giocattoli, dove stavano accanto ad amabili elefantesse e foche meccaniche, il topo e suo figlio precipitano in un immondezzaio di periferia. In piedi l'uno di fronte all'altro e con le mani congiunte, coltivano nei loro minuscoli corpi di latta il sogno di autoricaricarsi per sfuggire alla dipendenza dal mondo. Ma la vita li trascinerà in un turbine di avventure terrorizzanti. Questa favola, come sempre le vere favole, incanta i bambini - grandi esperti di suspense - per dire a tutti cose terribili e meravigliose.
Ci sono romanzi brevi più densi di emozioni e di vicende di certi romanzoni da ottocento pagine e passa. Ed è esattamente il caso di "Il calore del sangue". Questa volta Irène Némirovsky punta il suo obiettivo non già sul milieu dell'alta borghesia ebraica in cui è cresciuta, né su quello dei ghetti dell'Europa orientale, bensì sul piccolo, angusto, gretto mondo della provincia francese. Il quadro è, in apparenza, di quieta, finanche un pò scialba agiatezza campagnola: la figlia di due ricchi proprietari terrieri sta per sposare l'erede di un'altra famiglia in tutto e per tutto simile, un bravo ragazzo, come si dice, innamorato e devoto. Eppure bastano poche note stridenti (che l'autrice è abilissima a insinuare fin dalle prime pagine) per farci intuire che dietro la compatta, liscia superficie di perfetta felicità agreste - in cui sembra che ogni sentimento si sia come pietrificato - si spalancano voragini insospettate: nessuno, insomma, è al riparo dalla passione, dalla violenza, persino dal delitto, quando è spinto e travolto dal "calore del sangue".
Chi ha di Mordecai Richler l'immagine di un narratore irresistibile e torrenziale (irresistibile anche perché torrenziale) deve metterla da parte. Da vero epigono di razza del cabaret yiddish, Richler sapeva perfettamente come allestire un one man show, cioè come scrivere e interpretare un breve monologo che sotto l'ombrello di una comicità viscerale e inarginabile disegnasse, attraverso le vicissitudini e i tic di un personaggio, tutto un mondo. Non è dunque un caso che nel 1969, a metà circa della sua carriera, abbia deciso di prendersi una vacanza, e raccontare daccapo le storie del suo quartiere a Montreal, solo in una forma più diretta e confidenziale, lasciando cioè che si sovrapponessero e si intrecciassero così come, in apparenza, gli venivano in mente. Ecco perché in queste pagine si mischiano, con la massima libertà possibile, una disamina delle catastrofiche ripercussioni di un pezzo di "Time" sulla vita quotidiana di St. Urbain Street, una divagazione sull'uso "privato" delle cabine telefoniche pubbliche e un manualetto sul sesso redatto da un cultore della materia assai vicino a molti lettori: Duddy Kravitz. Per capire di chi è questo libro, e cosa offra, basterebbe insomma aprirlo a caso, senza neppure guardare la copertina.
"Dallo speciale mondo chiuso e anacronistico delle comunità chassidiche sperdute nelle grandi gelide pianure orientali non s'innalzerà mai più una voce. Il libro del ceco Jirí Langer "Le nove porte" è il documento meno mediato di cui oggi si possa disporre per avvicinare l'oscuro e luminoso regno dei chassidim, cuore di quell'universo perduto." (Sergio Quinzio)
Quando nel 1982, uscì "Alla conquista di Lhasa", molti trovarono semplicemente entusiasmante la rievocazione della corsa, fra la fine dell'Ottocento e i primi decenni del Novecento, per la conquista di quello che ancora era, nell'immaginazione popolare, il Paradiso Perduto: il Tibet. In effetti le imprese di personaggi come Anne Royle Taylor - che nel 1892 dai teatri dell'East End passò ai sentieri himalaiani, arrivando, a dorso di mulo, a un passo da Lhasa -, o di Maurice Wilson - fermato dalle autorità inglesi in India poco prima di mettere in opera l'ultima fase del suo piano, che prevedeva di schiantarsi con un biplano Gipsy Moth alle falde dell'Himalaya per poi proseguire a piedi alla volta dell'inaccessibile capitale - restano nella memoria. Ma a chi lo sa davvero leggere il racconto di Hopkirk suggerisce anche qualcos'altro, e cioè ad esempio il senso di una credenza antichissima, secondo la quale chi conquista il Tibet conquista, semplicemente, il mondo, oltre alla strana sensazione che le tensioni globali, se accostate a quello che ancora oggi rimane il loro misterioso e segreto epicentro, non siano che epifenomeni marginali.
Come si parla di "orecchio assoluto" a proposito di coloro che sanno riconoscere perfettamente l'altezza dei suoni, si potrebbe parlare di "occhio assoluto" per una qualità che Bruce Chatwin già mostrava nei suoi scritti e che ora appare, e si impone, nelle sue fotografie. Riconoscere in ciò che circonda l'individuo - e soprattutto quello che circonda l'occhio, sempre mobile, del viaggiatore - quegli spicchi di realtà che sono altrettante visioni, isolarli dal resto e lasciarli vibrare nella loro pura evidenza ottica: questo è il segno di elezione dell'"occhio assoluto". Le immagini che compaiono in questo libro furono colte in Patagonia e in Mauritania, in Australia e in Afghanistan, nel Mali e in Nepal, ma spesso il luogo di origine e l'occasione rimangono indecifrabili, come se la pura accidentalità del viaggiare fosse servita a far emergere ogni volta, in un labile momento, la piena singolarità di un frammento di ciò che è, senza altri attributi, e al tempo stesso il muto stupore dell'occhio che lo coglie. Insieme a queste fotografie appaiono qui per la prima volta lunghi estratti dai taccuini di Chatwin, riserva alla quale era solito attingere per tutte le sue opere. Da due vie, dunque, il volume permette di entrare nel segreto - quasi nella percezione stessa - di uno scrittore che rimarrà fra i grandi dei nostri anni.
Negli anni Cinquanta, i cieli delle città americane (e anche gli schermi dei relativi cinema) pullulavano di oggetti volanti non identificati. L'oggetto che il primo giorno di scuola attraversa il cielo della classe, sotto gli occhi attoniti del professor Frank McCourt, è invece identificabilissimo: un panino che l'immancabile mamma italiana ha farcito, a beneficio del suo pupo, con peperoni, cipolla, formaggio fuso e mortadella. Se la prima inquadratura del libro risulta quantomeno inattesa, l'epilogo della sequenza, con il professore che raccoglie il panino e lo mangia lentamente davanti alla scolaresca annichilita, è destinato a restare. E a farci vivere il clima delle trentamila ore di lezione (cifra dell'autore) che McCourt terrà, nei tre decenni successivi, in varie scuole - tecniche e non - sparse tra Brooklyn, Manhattan e Staten Island.
All'inizio c'è un manoscritto. Anzi, un frammento di manoscritto: "una reliquia mutilata, un pezzettino di testo sacro scritto in una lingua ignota su un rotolo di seta" risalente al II o al III secolo d.C. Quel rotolo misterioso, un imperatore dell'XI secolo ha invano cercato di decifrarlo, e per esserci (forse) riuscito il suo poeta di corte è stato assassinato. Quasi mille anni dopo, l'ultimo imperatore della Ghia, Puyi, ne è stato ossessionato al punto da uscire di senno, e durante il volo che lo portava in Giappone ha lacerato con i denti e ne ha gettato una parte dall'aereo. Il frammento disperso è finito, per vie misteriose, nelle mani di Zai Lan, il legittimo erede al trono esiliato in Manciuria dalla crudele imperatrice Gixi. Ma questo, appunto, è solo l'inizio: perché la nipote di Zai Lan sposerà un sinologo francese, che finirà in un campo di lavoro, e il figlio del sinologo francese studierà la lingua del rotolo, e si innamorerà a sua volta di una giovane sinologa francese, la quale rimarrà anche lei impiglita nel groviglio di vicende che hanno al centro l'enigmatico frammento.
Non capita spesso che Maigret perda le staffe. In genere (lo sanno bene i suoi fedeli lettori) conserva sempre quella sua aria un po' torpida, quasi ottusa, e la sua imperturbabile calma. Con un certo tipo di colpevoli, poi, può anche dar prova di una personale, benigna indulgenza. Altri, invece, suscitano in lui un disprezzo irrefrenabile, e a volte un furore micidiale. Ed è appunto ciò che accadrà allorché, dopo aver brancolato nel buio per un po', il commissario si troverà di fronte l'assassino di Emile Boulay, detto il Bottegaio. Un omicidio che fin dal primo momento gli è sembrato anomalo. Innanzi tutto perché chi ha ucciso ha tenuto nascosto il cadavere per più di quarantott'ore prima di abbandonarlo su un marciapiede. E poi perché Emile è stato strangolato: e in genere negli ambienti della malavita si usa la pistola, o al massimo il coltello. Lo stesso Boulay, del resto, era un personaggio anomalo: proprietario di vari night-club, doveva il suo soprannome al modo in cui gestiva gli affari: "Non è mica perché uno si guadagna la vita facendo spogliare le donne che dev'essere per forza un gangster... Sono un commerciante rispettabile, io..." usava dire. Chi poteva aver interesse a uccidere un uomo così ligio, così attento alla propria reputazione?