Mentre l'azione si dipana, mutandosi in un potente apologo, il Vice - il commissario di polizia protagonista di questo romanzo - tiene sempre nella mente l'incisione di Dürer intitolata "Il cavaliere, la morte e il diavolo", che lo ha accompagnato sulle pareti di tante stanze, nelle sue peregrinazioni da un ufficio all'altro, come se in quell'immagine si celasse il segreto di ciò che avviene intorno a lui. Solo che il mondo, ormai, sembra poter fare a meno del Diavolo. Forse perché "il Diavolo era talmente stanco da lasciar tutto agli uomini, che sapevano fare meglio di lui".
Polli in rivolta contro un intollerabile rito di espiazione, un cane docile e malmenato in fuga dalla ferocia dei suoi simili e degli uomini, un ronzino stremato da una vita di fatiche e bastonate: ecco i protagonisti di queste taglienti storie ambientate negli shtetl dell'Europa orientale. Ma protagonisti sono anche gli uomini che, nell'ansia di celebrare le loro feste, di vivere e di dimenticare, non sanno vedere le sofferenze degli animali, e tanto meno attenersi al precetto talmudico che impone "pietà per gli esseri viventi". Non sorprende allora che il bambino angustiato per la sorte di una carpa ("Non dice forse il rebe che tutte le creature sono care al Signore?") si senta dare dell'idiota dalla madre -e che questa, vedendolo poi piangere (per la piccola Perele, uccisa durante un pogrom), pensi semplicemente che gli è andato del rafano negli occhi. È un bestiario paradossale, quello creato da Shalom Aleichem, un mondo alla rovescia dove gli animali minano antiche usanze e sovvertono l'ordine naturale delle cose - un mondo còlto con lo sguardo impietoso ma partecipe che ben conoscono quanti hanno già amato gli stralunati personaggi di "Un consiglio avveduto" e gli amori tenaci e impossibili del "Cantico dei Cantici".
James ha 18 anni e vive a New York. Finita la scuola, lavoricchia nella galleria d'arte della madre, dove non entra mai nessuno: sarebbe arduo, d'altra parte, suscitare clamore intorno a opere di tendenza come le pattumiere dell'artista giapponese che vuole restare Senza Nome. Per ingannare il tempo, e nella speranza di trovare un'alternativa all'università ("Ho passato tutta la vita con i miei coetanei e non mi piacciono granché"), James cerca in rete una casa nel Midwest dove coltivare in pace le sue attività preferite - la lettura e la solitudine -, ma per sua fortuna gli incauti agenti immobiliari gli riveleranno alcuni allarmanti inconvenienti della vita di provincia. Finché un giorno James entra in una chat di cuori solitari e, sotto falso nome, propone a John, il gestore della galleria che ne è un utente compulsivo, un appuntamento al buio...
Quattro personaggi intrecciano negli "Emigrati" la loro vita con quella dell'autore: Henry Selwyn, brillante chirurgo e uomo di mondo, ritiratosi in tarda età nella torre di una casa della campagna inglese dove Sebald affitta in gioventù un appartamento; Paul Bereyter, promeneur walseriano e maestro elementare del futuro scrittore in una scuola di paese; il prozio Ambros Adelwarth, cameriere negli hotel di lusso di mezzo mondo e maggiordomo presso l'alta società; il pittore Max Ferber, compagno di lunghe conversazioni serali a Manchester. Quattro personaggi legati alle vicende del popolo ebraico, spaesati ed errabondi, di cui Sebald ripercorre il cammino andando in cerca di amici e testimoni, diari, documenti, ritagli di giornali, fotografie, cartoline, e intessendo come sempre parola e immagine fotografica - in un'investigazione che è anche indagine sul proprio sradicamento.
"All'uomo non conviene considerare, riguardo a se stesso e riguardo alle altre cose, se non ciò che è l'ottimo e l'eccellente; e inevitabilmente dovrebbe conoscere anche il peggio, giacché la conoscenza del meglio e del peggio è la medesima" dice Platone in un passo del Fedone. Tuttavia, aggiunge Sgalambro in questo libro ad alta temperatura speculativa, la filosofia si è invece legata strettamente solo al "meglio", tanto da identificarvisi, e lo stesso Platone non ha affrontato minimamente la conoscenza del peggio che raccomandava. Vi è stato, certo, un "pessimismo che si è assunto il compito di trattare del pessimum, ma passando attraverso la sofferenza", e facendoci pagare i "lugubri stati d'animo del pessimista", mentre "solo dopo il dolore compare il vero pessimismo". Verso quest'ultimo, dunque, non può che condurci un "fanatico della verità" come Sgalambro: il metodo che Sgalambro utilizza assomiglia molto a un libero flusso di un pensiero erratico che si sviluppa attraverso contrappunti capaci di suscitare inattese accensioni nella mente del lettore. Ma per tornare sempre, lungo un percorso le cui diversioni compongono in realtà un disegno di mirabile coerenza, al tema dominante, fulcro di un'opera filosofica fra le più notevoli dei nostri tempi. E non senza un sentimento di contagiosa euforia.
Nei due decenni successivi alla rivoluzione di Khomeini, mentre le strade e i campus di Teheran erano teatro di violenze barbare, Azar Nafisi ha dovuto cimentarsi nell'impresa di spiegare a ragazzi e ragazze, esposti in misura crescente alla catechesi islamica, una delle più temibili incarnazioni del Satana occidentale: la letteratura. È stata così costretta ad aggirare qualsiasi idea ricevuta e a inventarsi un intero sistema di accostamenti e immagini che suonassero efficaci per gli studenti e, al tempo stesso, innocui per i loro occhiuti sorveglianti. Il risultato è un libro che, oltre a essere un atto d'amore per la letteratura, è anche una beffa giocata a chiunque tenti di proibirla.
Ha detto Milosz che a scrivere versi non è l'abilità della mano, ma "il cielo, a noi caro ancorché scuro, / qual videro i genitori e i genitori dei genitori / e i genitori di quei genitori / nel tempo che fu". Per Adam Zagajewski "voce sommessa sullo sfondo delle immense devastazioni di un secolo osceno, più intima di quella di Auden, non meno cosmopolita di quelle di Milosz, Celan o Brodskij" (Walcott) - quel cielo è Leopoli (oggi l'ucraina L'viv), la città della Galizia "dove dormono i leoni", che alla fine del secondo conflitto mondiale intere famiglie dovettero abbandonare per essere deportate nella Slesia sottratta alla Germania e assegnata alla Polonia. Cristallizzata dalla memoria e purificata dalla nostalgia, Leopoli si trasforma così in luogo concreto e insieme invisibile, familiare e sconosciuto, sacrario che "non è opportuno visitare", come se "la bella definizione di docta ignorantia avesse abbandonato le pagine dei libri per divenire una ferita aperta sulla verde mappa dell'Europa". Ma senza il grigio approdo di Gliwice (nell'Alta Slesia), mortificata dai modelli imperanti del socialismo reale, città terrena e regno dell'immanenza, la trascendente e celeste Leopoli, per sempre perduta, non potrebbe continuare a vivere. Né il viaggiatore-poeta saprebbe ritrovare "la vita di prima della catastrofe, la folla di prima della catastrofe, le nuvole, le vetrine, i cespugli di sambuco di prima della catastrofe". E, sempre straniero e sempre in cerca di una patria, scorgere il proprio volto.
Jonas non ce l'aveva con lei. Neanche adesso che se n'era andata. Sapeva che Gina non era cattiva. Anzi, era convinto che si sforzasse di essere una brava moglie. Gina era arrivata in casa sua come domestica; nella piccola libreria di libri d'occasione era entrata un giorno, ancheggiando e portandosi dietro un caldo odore di ascelle. Quando lui le aveva chiesto di sposarlo, sulle prime aveva rifiutato: "Ma lo sa che genere di ragazza sono io?" gli aveva chiesto. Sì, lo sapeva, come tutti in paese; ma voleva solo che lei fosse tranquilla. Ora lo aveva abbandonato, portandosi via l'unica cosa preziosa che lui possedesse, i suoi francobolli, e Jonas era stato colto da una vertigine. Per questo aveva cominciato a mentire. E per questo tutti, in paese, avevano cominciato a sospettare che fosse stato lui, il piccolo ebreo russo a cui nessuno era mai riuscito a dare del tu, a farla sparire.
Tutto comincia con un vecchio giudice che vive in una dimora cadente di Kalimpong, alle falde dell'Himalaya orientale, col suo misero cuoco e una cagnetta, Brac, che del giudice sembra l'unico amore. Ma questo terzetto in apparenza dimesso diventa, con l'arrivo della nipote del giudice, Sai, l'epicentro di un terremoto narrativo: dalla New York degli anni Ottanta, dove il figlio del cuoco lavora in una sfilza di ristoranti mandando al padre notizie sempre più allarmanti sulla sua avventura americana, alla Cambridge d'anteguerra dove il giudice ha frequentato l'università, all'Unione Sovietica, in cui si è interrotto il sogno astronautico del padre di Sai.
L'aborto, l'amor di patria, Carosello e l'insegnamento del latino, le raccomandazioni e il caso Tortora: su temi come questi Manganelli è intervenuto, nel corso degli anni Settanta e Ottanta, usando un'arma che gli era massimamente congeniale - il "corsivo fulminante". E da quei corsivi sbiechi e solitari emerge un ritratto dell'Italia che oggi più che mai lascia ammirati e scossi per la sua precisione.