"La vera storia dell'editoria è in larga parte orale - e tale sembra destinata a rimanere. Una teoria dell'arte editoriale non si è mai sviluppata - e forse è troppo tardi perché si sviluppi ora. Andando contro a questi dati di fatto, ho provato a mettere insieme due elementi: qualche passaggio nella storia di Adelphi, quale ho vissuto per cinquant'anni, e un profilo non di teoria dell'editoria, ma di ciò che una certa editoria potrebbe anche essere: una forma, da studiare e da giudicare come si fa con un libro. Che, nel caso di Adelphi, avrebbe più di duemila capitoli." (Roberto Calasso)
Il libro segue con ottocentesca, tolstojana generosità molteplici destini individuali spostandosi da Stalingrado ai lager sovietici e ai mattatoi nazisti, da Mosca alla provincia russa.
Nella "Seconda lettera ai Tessalonicesi", che la tradizione attribuiva a san Paolo, compare l'enigmatica figura di una potenza: il katechon, qualcosa o qualcuno che trattiene e contiene, arrestando o frenando l'assalto dell'Anticristo, ma che dovrà togliersi o esser tolto di mezzo - affinché l'Anticristo si disveli - prima del giorno del Signore. E l'interpretazione di quella figura è qui lo sfondo su cui si dipana una riflessione generale - in costante 'divergente accordo' con la posizione di Carl Schmitt - sulla 'teologia politica', e cioè sulle forme in cui idee e simboli escatologico-apocalittici si sono venuti secolarizzando nella storia politica dell'Occidente, fino all'attuale oblio della loro origine. Con quale sistema politico può trovare un compromesso il paradossale monoteismo cristiano, la fede nel Deus-Trinitas? Con la forma dell'immuro o, invece, con quella di un potere che frena, contiene, amministra e distribuisce soltanto? Oppure occorre cercare una contaminazione tra le due? Non poche delle decisioni politiche che hanno segnato la nostra civiltà ruotano intorno a queste domande, e nell'opera di alcuni dei suoi più grandi interpreti, da Agostino a Dante a Dostoevskij, trovano una drammatica rappresentazione. Il volume è corredato da un'antologia dei passi più significativi della tradizione teologica, dalla prima patristica a Calvino, dedicati all'esegesi della "Seconda lettera ai Tessalonicesi", 2, 6-7.
"C'è un'esultanza fortissima, una celebrazione della fortuna, quando uno scrittore è testimone degli albori di una cultura che si definisce da sé, ramo dopo ramo, foglia dopo foglia..." scrive Walcott parlando dei Caraibi, e di uomini e donne che "non leggono ma sono lì per essere letti, e se vengono letti nel modo giusto creano la propria letteratura". Non stupisce allora che egli consideri scrittori fratelli Saint-John Perse, Aimé Césaire e Patrick Chamoiseau. Ma il suo sguardo valica i confini dei Caraibi, per abbracciare un orizzonte ben più ampio: da Philip Larkin, che "ha inventato una musa, il cui nome era Mediocrità", a Ted Hughes, che con la sua poesia "ringhia come una bestia braccata", a Robert Frost, dalla "saggezza invernale", a Les Murray, che in virtù della sua "forza irsuta" sembra uscito da "una scena di Mad Max", a Iosif Brodskij, immerso nel "caos" della trasformazione che ogni poeta attraversa quando traduce se stesso. E a dispetto dell'eterogeneità degli oggetti su cui Walcott si sofferma, questa raccolta si fissa nella nostra mente come un'unica, folgorante immagine: merito, certamente, di una scrittura così intensa da rischiare a ogni riga di frammentarsi in lirica.
Un barbiere si sveglia di buon'ora, si alza dal letto, spezza il pane appena sfornato, vi scorge dentro "qualcosa di biancheggiante": un naso. Prende così avvio uno dei racconti più celebri della letteratura di tutti i tempi, affiancato in questa raccolta da altri quattro, non meno significativi e famosi: II ritratto, dove un dipinto porta con sé, nel trascorrere degli anni, tutto il male che era nell'animo del personaggio rappresentato; La Prospettiva, storia di incontri e di passioni fatali o fugaci sullo sfondo mutevole, e talora inquietante, del Nevskij Prospekt; II giornale di impazzo, diario di un uomo solo e del suo precipitare nella follia; Il mantello, dramma di un povero impiegato che subisce il furto del cappotto nuovo acquistato avvezzando una vita già misera a ulteriori, patetiche restrizioni.
"Chiunque non ne resti sconvolto incontrandola per la prima volta evidentemente non l'ha capita" diceva della meccanica quantistica Niels Bohr, uno dei suoi padri fondatori - mentre Einstein ne era piuttosto infastidito: "Dio non gioca a dadi col mondo". Certo è che, visti da vicino, i fenomeni quantistici pongono sconcertanti sfide alla logica e al senso comune, modellati sul mondo macroscopico. A seconda delle situazioni, la materia è onda o particella e il confine tra l'osservatore e il fenomeno osservato diventa pericolosamente labile. Coppie di particelle originatesi insieme, ma separate da distanze di chilometri, si comportano come se fossero una unità inscindibile, quasi comunicassero per via telepatica: una trasmissione superluminale, o addirittura istantanea? Ma questa possibilità è negata dalla teoria della relatività, l'altra colonna portante della nostra visione del mondo. Un simile argomento, così remoto dall'esperienza comune, per essere seriamente studiato richiede conoscenze matematiche avanzate e un lungo tirocinio scientifico. Chi ha voluto divulgare i concetti quantistici presso il grande pubblico ha invece il più delle volte finito per banalizzarli ed estenderli ben al di là delle intenzioni dei loro creatori, alimentando ogni sorta di mode e di credenze.
Jules Guérec - quarant'anni, celibe, proprietario di due pescherecci - è sempre vissuto nella cittadina bretone in cui è nato, nella casa adiacente all'emporio che la sua famiglia gestisce da generazioni, nello stesso odore "di catrame, cordami, caffè, cannella e acquavite", insieme alle due sorelle rimaste nubili, che lo accudiscono con una sollecitudine benigna, occhiuta e possessiva. A loro Guérec deve rendere conto di come spende ogni centesimo. Persino quando gli capita di andare a Quimper, e di non resistere alla tentazione di tornare in quella certa strada dove un paio di signore "arrivate da Parigi" passeggiano "gettando agli uomini sguardi provocanti", il pensiero di come farà a giustificare i cinquanta franchi mancanti gli rovina il piacere. Sono loro, le sorelle, a sorvegliare tutto, a provvedere a tutto. Anche quella volta che lui, da giovanotto, ha messa incinta una ragazza, è stata Celine - che delle due è la più penetrante e la più spiccia, e che afferma di conoscere il fratello come fosse un figlio suo - a prendere in mano la situazione. Una notte, però, Guérec, senza quasi accorgersene, sarà la causa di un evento tragico, le cui paradossali conseguenze potrebbero forse spingerlo a uscire dal bozzolo soffocante, ma anche tiepido e rassicurante, dei legami familiari.
Pubblicato nel 1958 nei "Gettoni" di Vittorini, poi di nuovo nel 1960 con l'aggiunta di un importante racconto, L'antimonio, che è un po' un romanzo interrotto, "Gli zii di Sicilia" è la prima apparizione di Sciascia come narratore puro, fabulatore di storie che qui sono della Sicilia e della Spagna. Con voce sommessa e ferma, con una sorta di energia compressa, raccolta in sé, lo Sciascia narratore disegna il suo primo territorio. E subito si riconoscono certi suoi tratti essenziali: l'attenzione alle cose e al dettaglio, il confronto perenne fra la Sicilia e il mondo (il libro si avvia con quell'evento subito favoleggiato che fu lo sbarco degli Alleati), la lucidità nel cogliere i paradossi, gli inganni e le beffe della Storia.
"Il borgomastro di Furnes è un romanzo mirabile, che riassume la visione di Simenon. Il mondo è Furnes: questa misurazione, questa ripetizione, questo odio, questa apparente trasparenza, questa foltissima nebbia. Nessuna fuga è possibile. Il borgomastro intravede un barlume di libertà e di leggerezza: per un momento è abbacinato: vorrebbe fuggire; ma alla fine comprende che non potrà mai violare la sua fedeltà verso i vivi e i morti, e lentamente rientra tra le invalicabili mura, dove, come tutti noi, abita prigioniero da sempre." (Pietro Citati)
In questo piccolo gioiello c'è in nuce tutto Bernhard: qui si ride, ci si commuove e si pensa. Il racconto che dà l'irriverente titolo al volume vede il Titano, ormai allo scorcio della vita, in fase di bilanci. Ha capito che la letteratura conta poco o nulla, e non gli resta che un unico desiderio: incontrare Wittgenstein. Convoca dunque a Weimar il filosofo, innescando una serie di esilaranti peripezie. Figura centrale nell'opera di Bernhard, Montaigne svetta nella seconda prosa, dove vediamo un giovane angariato dai genitori rifugiarsi nella torre avita e trovare lì l'unica alternativa all'orrore familiare: i libri, e nella fattispecie i libri di Montaigne. Se la famiglia è il luogo del castigo, della reclusione, dell'odio, della distruzione psicofisica, la torre, la biblioteca, i filosofi sono l'unica salvezza. Ilare e straziante è il terzo racconto, in cui due amici si incrociano in una stazione ferroviaria. E uno dei due si lascia andare a un continuo, trascinante "ti ricordi...?": ecco allora risorgere l'infanzia e genitori sadici, amanti della montagna, che costringono la prole ad arrampicarsi a ora antelucana, bardata con calzettoni e berretti rossi (per non sfuggire al soccorso alpino...). E se la madre, dispensatrice di ceffoni fisici e morali, pizzica sulla vetta la sua ridicola cetra, il padre affida a un album da disegno oscene vedute alpestri. A suggellare il congedo dai genitori sarà un grande falò di calzettoni rossi.