In quella partitura frammentaria per pianola meccanica che si può considerare l'opera di Guido Ceronetti, la parola amore era stata fin qui accostata a ogni condizione della mente e del corpo, tranne forse alla più improbabile di tutte: la felicità. E finalmente cominciamo a intuire perché. Se infatti le filosofie, le religioni e ogni altra forma di sapienza si affannano a smentire anche solo la possibilità statistica di una congiunzione del genere, nell'universo del romanzo qualcosa come un amore felice, sembra dire Ceronetti, può invece esistere. Anche se ha come quinta il contesto meno propizio, una città notturna e sinistra. Anche se i suoi due protagonisti – un vecchio fotografo di guerra piegato dagli anni e dai dolori, Aris, e una donna molto più giovane ma altrettanto segnata, Ada – non sembrano adatti per la parte. E anche se contro il loro pericolante idillio, per ragioni che sarebbe inopportuno svelare, cospira addirittura una razza di insetti alieni, che minaccia i cieli di tutte le città del mondo.
«Dotato di cultura enciclopedica, Rucker spazia dal celebre racconto ottocentesco di Edwin Abbott Flatlandia a La storia di Plattner di H.G. Wells; da opere di misconosciuti matematici otto-novecenteschi agli illustri John Wheeler e Kip Thorne, fino ai romanzi di fantascienza e alle storie di Borges, per chiarire anche al lettore più profano che cosa accadrebbe se lo spazio avesse due sole dimensioni oppure quattro invece di tre, se esseri bi- o quadridimensionali apparissero nel nostro mondo tridimensionale o se, viceversa, uno di noi si facesse una passeggiatina nella quarta dimensione. Simultaneamente Rucker ci spiega la natura dello spazio e quella del tempo e come essi potrebbero mutare nei modi più svariati. Nella sua scorribanda spaziotemporale ce n’è per tutti i gusti, dai buchi neri a Lewis Carroll con il suo Alice nel paese delle meraviglie, senza dimenticare una capatina (ma umoristica) nel mondo della parapsicologia e della metafisica». «Le Scienze»
L'AUTORE
Rudy Rucker
Rudy Rucker (ovvero Rudolf von Bitter Rucker, pronipote di Hegel) è nato a Louisville, nel Kentucky, il 22 marzo 1946 e insegna matematica alla San José State University. È sposato dal 1967 con Sylvia, sua compagna di college, e ha tre figli: Georgia, Rudy Jr. e Isabel. Ha pubblicato i seguenti saggi: Geometry, Relativity and the Fourth Dimension (1977), Infinity and the Mind (1982), The Fourth Dimension. A Guided Tour of the Higher Universes (1984; trad. it. La quarta dimensione. Viaggio guidato negli universi di ordine superiore, Adelphi, 1994), Mind Tools (1987); l'autobiografico All the Visions (1991); una raccolta di articoli scelti: Seek! (1999); le raccolte di racconti The Fifty-Seventh Franz Kafka (1983), Transreal! (1991; raccolta commista di articoli), Gnarl! (2000). Ha poi scritto alcuni romanzi «transrealisti» – «l'essenza del transrealismo consiste nel raccontare la propria vita reale in termini fantastici» – : White Light, or, What Is Cantor's Continuum Problem? (1980), Spacetime Donuts (1981), The Sex Sphere (1983), Master of Space and Time (1984), The Secret of Life (1985), The Hollow Earth (1990), The Hacker and the Ants (1994), Saucer Wisdom (1999). Più celebre la tetralogia cyberpunk composta da Software (1982; Philip K. Dick Award), Wetware (1988; Philip K. Dick Award), Freeware (1997) e Realware (2000). Nel 2002 apparirà un altro romanzo, Spaceland, e nel 2003 il romanzo storico Bruegel.
"Della letteratura non abbiamo bisogno per imparare a leggere. Ne abbiamo bisogno per sottrarre il mondo reale alle letture sommarie". E proprio questa la convinzione che ispira ad Alain Finkielkraut l'appassionato esercizio critico di Un cuore intelligente: raccontare nove tra i più notevoli libri della modernità svelando l'immensa sapienza che lì si cela. Perché la risposta alle grandi domande - "Che cos'è la civiltà? Che cos'è l'arte? Che cosa sono l'ideale e la grazia?" - non può che essere "una risposta narrativa". Rileggendo Tutto scorre... di Vasilij Grossman o La macchia umana di Philip Roth, Lo scherzo di Milan Kundera o II pranzo di Babette di Karen Blixen, Lord Jim di Joseph Conrad o Washington Square di Henry James, Finkielkraut, che da anni va smascherando le ingiustificate certezze dell'Occidente, si propone di scrutare la realtà incarnata nei particolari e spesso redenta dall'ironia - e, soprattutto, di trovare una chiave per decifrare gli "enigmi del mondo". E con la sua suite di letture ci invita a svincolarci da molteplici trappole, della ragione e del sentimento, per lasciarci educare, tramite la parola letteraria, alla "perspicacia affettiva". Solo così ci verrà concesso quel "cuore intelligente" che re Salomone invocava dall'Eterno, stimandolo più prezioso di ogni altro bene.
"È una situazione fra le più classiche. Lei decide di tradire il marito con un uomo che giudica affascinante. La tresca funziona fino al giorno in cui i due clandestini hanno la sensazione che il marito tradito abbia scoperto tutto. È un guaio. Anche perché, messa alle strette, l'adultera confessa. Che fare? Si dovrà procedere alla separazione e al divorzio. Sconvolta e piangente, lei si reca dall'amante. Gli dice d'aver confessato: vuole separarsi e andare a vivere con lui. Grande è la sorpresa, a quel punto. Infatti, l'amante non ha intenzione di lasciare la moglie e mettersi con lei. Pensiamo tutto questo ambientato nella colonia inglese di Hong Kong alla metà degli anni Venti e affidato alla penna superprofessionale di W. Somerset Maugham. Sarebbe uno dei suoi romanzi caustici, mondani, un po' cattivi. Ma Maugham, influenzato dalla lettura dell'episodio dantesco di Pia de' Tolomei, pensa di aggiungervi qualcosa in più." (Giorgio Montefoschi)
È noto che il pensiero indiano fece irruzione sulla scena filosofica europea grazie all’entusiasmo suscitato in Schopenhauer dalla lettura della versione latina delle Upanisad, la prima in Occidente, ad opera di Anquetil-Duperron, apparsa nei primissimi anni dell’Ottocento. Meno noto è che Anquetil- Duperron si era basato su una traduzione persiana, realizzata nel 1657 e patrocinata dal principe moghul Muhammad Dara Šikoh (1615-1659). La dinastia musulmana dei Moghul, che regnò sul l’India a partire dal 1526, aveva già mostrato grande apertura e interesse per il sapere indiano, in particolar modo durante il regno dell’imperato re Akbar, ma il suo pronipote, Dara Šikoh, si spinse ben più in là. Affiliato alla confraternita sufi della Qadiriyya e seguace delle dottrine del grande mistico musulmano Ibn ‘Arabi, attraverso l’assidua frequentazione di yogin e sapienti indù giunse alla conclusione che rispetto al sufismo non vi era «differenza alcuna, fuorché divergenze lessicali, nel loro modo di percepire e comprendere il Vero». A sostegno di tale tesi nel 1655 scrisse La congiunzione dei due oceani, in cui si sforzò di mostrare la puntuale corrispondenza fra i princìpi della tradizione spirituale indù e di quella sufi. Tesi tanto audace quanto temibile, che suscitò una forte opposizione da parte degli ‘ulama’ più ortodossi – e che consentì al fratello Awrangzeb di ottenere una condanna a morte per apostasia e di impadronirsi del trono.
Alla fine degli anni Cinquanta, un giovane italiano di buone letture e nessun pregiudizio passa una stagione a Harvard e un’altra a Broadway. Dunque, corsi e lezioni e incontri importanti nella prestigiosa università: H. Kissinger, A. Schlesinger, J.K. Galbraith, D. Riesman, J. Burnham... Poco dopo, nella capitale dello spettacolo, sensazionali musicals e commedie con leggendari mostri sacri tuttora in scena: Ethel Merman, Mary Martin, Charles Boyer, Claudette Colbert, Lotte Lenya, Paul Newman, Geraldine Page, Lauren Bacall, Elizabeth Taylor, fra Tennessee Williams, Jerome Robbins, Gene Kelly, Woody Allen, Gypsy, Redhead, West Side Story... Intanto, letture e conversazioni coi protagonisti della letteratura: da Edmund Wilson e Saul Bellow e Mary McCarthy a Saul Steinberg e Truman Capote e Jack Kerouac... Incubi e tormentoni metropolitani. Nuovi perbenismi nei suburbia. Gli scapestrati «sabati del Village». Negli anni Sessanta, su e giù per la California, lungo la mitica Highway 101. Soggiorni e scoperte fra San Francisco e Los Angeles, Stanford e Berkeley e Hollywood. Da Alfred Kazin a George Cukor. Panorami e vedute. I primi movimenti dei «figli dei fiori» e le «contestazioni» poi passate più violente in Europa. Quindi, «off-off». Affermazioni vigorose ed effimere delle tendenze e strutture alternative, soprattutto nel cinema e nel teatro controcorrente. Mentre lo spettacolo più convenzionale si abbassa a livelli sempre più infantili e turistici. Visite cool a vari luoghi leggendari, frattanto: New Orleans, New Mexico, Taos, Key West, Cape Cod, Fire Island, Arizona, Disneyland, Honolulu.
Alberto Arbasino è nato a Voghera nel 1930, e ha pubblicato il suo primo racconto nel 1955, su «Paragone». Era Distesa estate, che sarebbe entrato a far parte della raccolta Le piccole vacanze, del 1957. Membro del Gruppo '63, collaboratore di alcune importanti riviste come «L'illustrazione italiana», «Officina», «Il Mondo», «Tempo presente», «Il Verri», e in seguito del quotidiano «la Repubblica», Arbasino ha scritto numerosi saggi, pamphlet e opere di narrativa, che vengono ripubblicati in questi anni da Adelphi (L'Anonimo lombardo, 1959 e 1996; Parigi o cara, 1960 e 1995; Fratelli d'Italia, 1963, 1976 e 1993; Super-Eliogabalo, 1969 e 2001; Specchio delle mie brame, 1974 e 1995; Lettere da Londra, 1997) insieme a nuovi testi (Mekong, 1994; Passeggiando tra i draghi addormentati, 1997; Paesaggi italiani con zombi, 1998; Le Muse a Los Angeles, 2000; Marescialle e libertini, 2004; Dall'Ellade a Bisanzio, 2006). Matinée (1983) è invece, come recita il sottotitolo, Un concerto di poesia.
"Il vino della solitudine" è il più autobiografico e il più personale dei romanzi di Irene Némirovsky: la quale, pochi giorni prima di essere arrestata, stilando l'elenco delle sue opere sul retro del quaderno di "Suite francese", accanto a questo titolo scriveva: "Di Irene Némirovsky per Irene Némirovsky". Non sarà difficile, in effetti, riconoscere nella piccola Hélène, che siede a tavola dritta e composta per evitare gli aspri rimproveri della madre, la stessa Irene; e nella bella donna che a cena sfoglia le riviste di moda appena arrivate da Parigi in quella noiosa cittadina dell'impero russo - e trascura una figlia poco amata per il giovane cugino, oggetto invece di una furente passione - quella Fanny Némirovsky che ha fatto dell'infanzia di Irene un deserto senza amore. Hélène detesta la madre con tutte le sue forze, al punto da sostituirne il nome, nelle preghiere serali, con quello dell'amata istitutrice, "con una vaga speranza omicida". Verrà un giorno, però, in cui la madre comincerà a invecchiare, e Hélène avrà diciott'anni: accadrà a Parigi, dove la famiglia si è stabilita dopo la guerra e la rivoluzione di ottobre e la fuga attraverso le vaste pianure gelate della Russia e della Finlandia, durante la quale l'adolescente ha avuto per la prima volta "la consapevolezza del suo potere di donna". Allora sembrerà giunto alfine per lei il momento della vendetta. Ma Hélène non è sua madre - e forse sceglierà una strada diversa: quella di una solitudine "aspra e inebriante".
«La volta che Itria Panedda Nilis riprese a sognare era un pomeriggio rovente di fine estate, con un sole che abbruschiava la pelle e spaccava le pietre». Da Melagravida i sogni se n'erano andati dopo un terremoto, quando la terra si era spaccata «come una melagrana matura». Ma quel giorno Itria Nilis – «conosciuta a Melagravida e nel circondario col nomignolo di Panedda per via delle sue carni morbide e bianche come il latte appena cagliato» – fu come sopraffatta da «una sonnolenza strana», e sognò, e quando tornò in sé si sentì (lei, vedova da quattro anni) come accesa da un fuoco, e corse verso l'ovile del capraio Martine. Lui, quel fuoco che Itria aveva addosso, glielo spense volentieri – ma la pagò cara. E questo accadeva sulle rive del lago di Locorio, dove da allora hanno cominciato a verificarsi fatti assai strani. Il parroco aveva un bel sostenere che non c'era nessun mistero, che era solo opera del Maligno: tutti lo sapevano, anche se pochi avevano visto Itria Panedda Nilis «che si spogliava e ballava, e cantava e volava sopra le acque del lago». Così comincia questo romanzo di Salvatore Niffoi, che ancora una volta, sin dalle prime pagine, immerge il lettore in un'atmosfera magica e insieme concretissima, in cui la vita quotidiana di un paesino della Barbagia (fatta di fatica e di dolore, di miseria e di ferocia) si illumina di visioni in cui compaiono il diavolo e i morti ammazzati, ma anche madonne con le «tette grosse e dure, labbra alabastrine e capelli di seta» – e, sull'altare maggiore di un santuario abbandonato, finanche un dipinto raffigurante una specie di «grosso ragno meccanico»: lo stesso rappresentato sul frontespizio di un libro stampato da Aldo Manuzio nel 1499...
Perfetto amalgama di poesia e affabulazione, di ricordi lontani e paesi remoti, le prose del Secondo amore ci trasportano in un mondo magico, popolato di giovani violinisti capaci di far danzare le stelle in cielo, agili ballerini col monocolo, clown lillipuziani e macrocefali, zingari accampati fra il bosco e la palude in una distesa di tende bianche. Ma riaffiora, costante, la Storia, evocata da un Natale di guerra sul bassopiano della Podolia, a due passi dal fronte; dalla presenza dell’imperatore («Lui giace sepolto nella Cripta dei Cappuccini, sotto le rovine della sua corona, fra le quali io – vivo – vado aggirandomi»); dal cordoglio per la miseria austriaca al crollo dell’impero e per il tramonto della patria; dalla nostalgia degli esuli e degli emigrati – una nostalgia che può spezzare il cuore. E a ritmare l’intero libro è l’amore, che nel racconto eponimo si fa pura, toccante bellezza: nel bosco incantato, teatro di incontri pudichi, una risata si alza in volo «come un raro, sconosciuto uccello bianco», mentre i giardini esalano il profumo del glicine «con la fresca veemenza di un dolce vento». Un profumo inebriante oggi come allora.
L'AUTORE
Joseph Roth
Jopseph Roth (1894-1939) fu ufficiale dell'esercito austriaco nella Grande Guerra, giornalista (a partire dal 1918) e romanziere. Nel 1933 l'avvento del nazismo lo costrinse ad abbandonare la Germania, dove viveva. Morì a Parigi.
Il cinema ha un suo modo di affrontare i tempi più difficili, che da sempre consiste nel proporre agli spettatori i più facili fra i soggetti possibili. Così nella Londra degli anni dell’ascesa di Hitler, mentre tutti si preparano all’inevitabile, un volitivo produttore, Chatsworth, ritiene sia il momento giusto per mettere in cantiere un’operetta vagamente mitteleuropea, di quelle che vanno parecchio anche a Hollywood nello stesso periodo. Chatsworth è altresì sicuro che La violetta del Prater sbancherà il botteghino, ma a due condizioni: che a dirigerlo sia il più talentuoso e paranoide fra i registi di lingua tedesca, Friedrich Bergmann, e che a occuparsi della sceneggiatura sia un giovane, promettente scrittore – Christopher Isherwood. Quanto segue è semplicemente la storia veridica (come il suo doppio narrativo, Isherwood prima della guerra aveva effettivamente lavorato alla Gaumont) e non resistibile (a volte, si sa, i making of sono cinema allo stato puro) di come un film nasce e si trasforma, e soprattutto di come giorno per giorno rischia, nei modi spesso più folli e sgangherati, la catastrofe. Per John Boorman, questo piccolo gioiello semidocumentario era il più bel libro in circolazione sul rapporto fra il cinema immaginario e quello reale; per qualsiasi lettore, sarà quantomeno una necessaria e appassionante parafrasi della lapidaria definizione che Bergmann, in un momento di franchezza, largisce a Christopher: «Sa che cos’è un film? ... Un film è una macchina infernale».