“Logos” non è soltanto “il verbo” che sta all'inizio del tutto, come dice il Vangelo di Giovanni, ma da sempre numero e “logos” si sono variamente intrecciati, tanto che l'uno non sarebbe esistito senza l'altro. Appaiono insieme già nei versi di Omero, se ne intuisce l'affinità fin nelle prime teogonie, nella tragedia antica e nella filosofia pitagorica, e nelle fonti da cui si ricava l'origine rituale della matematica il numero ha un valore simile a quello che avrebbe assunto il logos. Sarebbe dunque un controsenso - è quel che suggerisce Paolo Zellini additando temerariamente nel numero i suoi significati primi e fondamentali - inscrivere il “logos”, come si è soliti fare, nella sola sfera del linguaggio. Giacché, a seconda di come si intendano le due parole muterà il quadro di tutto il pensiero. E ciò appunto si azzarda in questo libro, che è una vera sfida intellettuale. E sono innanzitutto la matematica, la logica dell'ultimo secolo e mezzo e l'informatica della seconda metà del Novecento a suffragare questa visione. Individuando nella procedura effettiva della enumerazione elementi utili a porre su nuove basi il discorso enunciativo, il logos che categorizza e cerca di descrivere in modo discorsivo, mediante concetti e definizioni, l'essenza delle cose, Zellini rivisita così, illuminandolo, anche il concetto di algoritmo.
Questa volta Pardon è stato tassativo: il suo vecchio amico Maigret deve prendersi tre settimane di vacanza; e senza lasciare recapiti al Quai des Orfèvres. Così, alla fine di giugno, il buon dottore lo ha spedito a passare le acque a Vichy, dove, in compagnia della moglie, il commissario si annoia docilmente: ogni mattina beve i suoi bicchieri d'acqua, poi passeggia lungo i viali bordati di platani, seguendo sempre lo stesso itinerario, e la sera ascolta con orecchio distratto il concerto nel chiosco. Sullo sfondo, l'edificio bianco e sfavillante di luci del casinò - dove, ovviamente, lui e la moglie non mettono piede. Nel frattempo però, da quell'inguaribile scrutatore d'anime che è, non rinuncia a osservare i suoi compagni di cura. Tra loro ce ne sono un paio che hanno subito attirato la sua attenzione: in particolare, una donna non più giovanissima, con un lungo viso affilato, di un'eleganza un tantino rétro, e come votata alla solitudine (“la solitudine allo stato puro”). La signora in lilla: così l'ha soprannominata. E quando un giorno legge sul foglio locale che è stata assassinata, scatta in lui un riflesso condizionato: il desiderio di saperne di più, e di prendere parte alle indagini. Tant'è: quella mattina la signora Maigret dovrà trattenere un sorriso nell'accorgersi che l'itinerario della passeggiata ha subìto un'impercettibile variazione, e li ha condotti, guarda caso, giusto davanti alla villa dove abitava la vittima.
In questo libro, con stupefacente chiarezza, un grande fisico ci spiega come tutto ciò che percepiamo dipenda da accadimenti naturali che violano ogni aspettativa del senso comune. La via scelta è la seguente: guidare, come in un vero tour de force, ogni testa pensante negli impensabili meandri dell'elettrodinamica quantistica (abbreviata nella sigla QED del titolo). E - ciò che più conta per il lettore non specialista - Feynman procede mantenendo sempre la spiegazione in stretto contatto con l'esame di varie esperienze fisiche, così da farci entrare, in certo modo, nella mente dello scienziato che le osserva (e, per certi fenomeni, la prima mente che osservava fu proprio la sua).
Chi è Jack Mortimer e perché, appena è salito su un taxi alla Westbahnhof di Vienna, qualcuno gli ha sparato uccidendolo sul colpo? E perché mai doveva salire proprio sul taxi del giovane Ferdinand Sponer, che ha già parecchi problemi - soprattutto quello di essersi perdutamente innamorato di una fanciulla troppo bella, troppo ricca e troppo aristocratica per lui? Anche lei, il giorno prima, era salita sul suo taxi, ed era stata come un'apparizione: «grandi occhi grigi sotto l'orlo di una veletta», «le spalle cinte da una stola di volpe» - e per di più, come aveva facilmente scoperto l'abbagliato tassista dopo averla accompagnata a casa, contessa. Nel corso di una sola notte, l'ignaro Ferdinand Sponer si trova preso in una girandola di peripezie iperbolicamente tragicomiche, nel corso delle quali, per liberarsi dell'ingombrante cadavere, sarà costretto ad assumere lui stesso l'identità del morto e ad affrontare, nella suite di un albergo di lusso, la donna che è stata la sua amante e il di lei furibondo marito. Ma questo è solo un minuscolo segmento della incontenibile trama. Rare volte il romanzo novecentesco è stato animato da un tale strepitoso ritmo, che obbliga il lettore a seguire passo per passo - e quasi attimo per attimo - una vicenda che è tanto più ossessiva quanto più imprevedibile.
Hofmannsthal è il cardine di questa magistrale opera al tempo stesso critica e narrativa, dove Broch ci conduce lungo traiettorie concentriche nello spazio e nel tempo. Ne risulta il ritratto di un’epoca in cui si sviluppò tumultuosamente «il moderno», e che sembrò culminare nella Vienna dei primi due decenni del Novecento – epoca di immensa ricchezza e al tempo stesso minacciata da un irreprimibile vuoto e dalla corrosione di ogni valore. Broch la ritrae in ogni sua sfaccettatura in Inghilterra, Francia e Germania, prima di concentrare il suo sguardo sull’Austria absburgica, « il paese felice senza speranza», il luogo dove la crisi ha toccato l’acme e l’orpello abbellisce qualcosa di sempre più inconsistente. Soffermandosi su Hofmannsthal, nel cuore del libro, Broch ne ricostruisce la storia familiare, per poi raccontarne l’infanzia e adolescenza di ragazzo prodigio, l’isolamento fra i letterati viennesi, la disperazione di fronte alla crisi del linguaggio e la ricerca di nuove vie là dove «la parola non sa più dire la cosa». Una dialettica fra negazione del ruolo di scrittore e urgenza espressiva che appartiene allo stesso Broch, il quale, rispecchiandosi nell’ansia etica di Hofmannsthal, e narrandoci con tanta partecipe sapienza il suo tempo, ci regala anche una profonda e rivelatrice autoanalisi.
Della sua lontana carriera di modella Emilia non ha conservato molto, tranne una nervosa tolleranza verso l’eccentricità. Eppure la proposta che le arriva all’improvviso da una sua vecchia conoscenza nel mondo della moda, l’ineffabile signor Morita, la lascia per un attimo interdetta: si tratterebbe infatti di curare nei minimi particolari, a partire dagli abiti ma arrivando alla coreografia e anche oltre, le settantadue ore che alcuni turisti giapponesi amano trascorrere a Roma per ricevere, in una cerimonia che al ritorno presenteranno come un matrimonio esotico, la benedizione della Chiesa cattolica. Essendo nata in sartoria, e dopo anni di passerella, Emilia ha visto ben altro: i capricci di Audrey Hepburn e Ava Gardner, ad esempio, o le bizze di vari stilisti. Ma la sua perplessità non è di carattere professionale. Accade infatti che il lavoro di Morita consista nella messinscena, e quindi nella parodia, di un matrimonio, e che al matrimonio Emilia non pensi volentieri: molto tardivamente quello con Paolo, tenuto in piedi a forza quasi dagli inizi, si sta sciogliendo, mentre sua figlia Sofia, risucchiata da una brillante carriera di fotografa, ha una vita sentimentale che la Chiesa non benedirebbe mai. Eppure alla fine Emilia accetta, innescando una catena di eventi lievemente surreali che punta dritto al cuore nero di una vita molto diversa dal suo book. Nei suoi libri precedenti, Letizia Muratori aveva dimostrato di saper fondere a freddo il riso e l’angoscia, l’intermittenza della commedia e la voragine improvvisa del silenzio. Qui la fusione è invece calda, e il ritratto di una donna, delle sue solitudini, della penombra dolorosa cui non riesce a strapparsi si legge d’un fiato: temendo sempre più – e a ragione – l’arrivo della luce.
«La Weil fu un personaggio singolare non solo nelle idee, fuori dai conformismi lo fu anche nella vita, o meglio nella rigorosa tensione a far coincidere vita e pensiero, a confrontare e legare il pensiero e l'esperienza. Dice la sua biografia: "Aveva il dono di irritare molti e a volte fino al furore, e ... continua a irritare ancora". Simone Pétrement fu sua amica, e ha pagato il debito all'amicizia, al "miracolo dell'amicizia" così caro all'altra Simone, scrivendone una biografia bellissima, esemplare per onestà e precisione, per partecipe interrogazione sul senso e il mistero di una esperienza eccezionale» (Goffredo Fofi).
V.S. Naipaul viaggia sempre alla ricerca di qualcosa. In Fedeli a oltranza aveva esplorato quel groviglio rovente di pulsioni e ideologie che non tutti, ancora, chiamavano fondamentalismo islamico: in questo suo ultimo libro tenta invece di afferrare qualcosa di più sfuggente, la sopravvivenza delle credenze arcaiche in ciò che nel continente africano - e spesso non altrove - si intende per «modernità». È un itinerario lungo e tortuoso, che porta Naipaul dal Ghana alla Nigeria, dalla Costa d'Avorio e dal Gabon fino al Sudafrica, e che attraverso una scansione di incontri, fatti nudi e storie individuali gli fa trovare subito qualcosa di imprevisto: «Ero convinto che nell'immensa vastità dell'Africa le pratiche magiche non fossero diffuse in maniera uniforme. Ho dovuto ricredermi. Ovunque ho incontrato indovini che "gettavano le ossa" per leggere il futuro, e ovunque ho ritrovato la stessa idea di un'"energia" da imbrigliare attraverso il sacrificio rituale. In Sudafrica la "medicina da battaglia" è un composto fatto con parti del corpo soprattutto animali, ma anche umane. Vederlo con i miei occhi, sentirne il potere, mi ha riportato molto vicino all'inizio di tutto». Inizia così un altro viaggio, che non era semplice osare, verso quell'inizio, verso il big bang di un intero continente. Un viaggio di cui questo libro immediato, quasi orale, è un fedele resoconto: che appassiona, irretisce, e non di rado illumina.
Oltre a La persuasione e la rettorica , al Dialogo della salute e alle Poesie, Michelstaedter ha lasciato un’im pres sio nante mole di scritti. Impressionante tanto più se si pensa alla brevità di una parabola esistenziale conclusasi con il suicidio a soli ventitré anni, e in cui è impossibile non cogliere il segno di un audace programma: «... e farai di te stesso fiamma». E sono proprio questi ‘scritti vari’ – ovvero il laboratorio segreto di Michel staedter –, di cui il suo maggiore specialista ci offre ora una silloge che copre il cruciale periodo 1905-1910, a fornirci una chiave per penetrare l’enigma di un’at tività speculativa solitaria e radicale, che pareva, con la tesi di laurea, essere giunta a maturazione per vie misteriose, e che invece si rivela qui tumultuosamente ma caparbiamente preparata. Che rifletta sulla catarsi tragica o sulla «via della salute», che si sperimenti in favole o parabole, che reagisca a caldo a una pièce di Ibsen o di D’Annunzio o a un concerto, infatti, il pensiero di Michelstaedter sembra accanirsi intorno a un nucleo rovente, a una dolorosa certezza: contro ogni scuola che parli nel nome dell’assoluta verità, contro la voce della philopsychía, che mette «un empiastro sul dolore per lenirlo», l’uomo «deve ricrearsi nell’at tività col suo spirito per creare il valore individuale, per giungere alla ragione di sé stesso – alla vita, per portar l’at tualità all’atto; per esser persuaso; poiché da nessuno e da niente egli può sperar aiuto che dal proprio animo, poiché ognuno è solo nel deserto».
La formula vuota e ipocrita che denuncia l’attuale «crisi della politica» nasconde, in realtà, una crisi molto più profonda e inquietante, che accomuna non solo «tutte le forze della tradizione occidentale», ma esse stesse alla loro distruzione, compiuta dalla modernità: un’«“intima mano”, assolutamente più intima (e terribile) di quanto possa supporre Herder, quando, volgendosi al “santo Cristo” e al “santo Spi no za”, si chiede: “Quale intima mano congiunge i due in uno?”». Nel suo nuovo libro, Ema nuele Se verino mette a fuoco questo grande occultamento, accompagnandoci nel «sottosuo lo essenziale» del pensiero filosofico del nostro tempo. Severino ci mostra anzitutto la conflittualità e insieme la specularità di tali forze: l’incerta «identità europea», improntata dal duumvirato Usa-Urss, ovvero il più potente «monopolio legittimo della violenza» dell’ultimo secolo; il marxismo defunto e un capitalismo incapace di offrire alternative all’incremento del profitto privato quale «scopo supremo» della società; il cristianesimo e l’Islam come opposti dogmatici accomunati da una rigida connotazione antimoderna; lo Stato e la Chiesa, distinti sulla base di un Concordato «ambiguo» che lede le ragioni di entrambi. Al tempo stesso Severino rileva come tutte quelle forze convergano nell’asservimen to a una «tecnica» modellata dal «sapere ipotetico» della scienza e fondata sul solo «valore della potenza», e dunque sintesi e strema dell’«errore» dell’Occidente: l’«a gire» come un carattere separato dall’es sere, e il percorso dell’uomo come un procedere «tra nulla e nulla». Fitto di spiazzanti provocazioni intellettuali (sull’ancipite idea di Provvidenza, e stesa dal cattolicesimo ai totalitarismi; sulla contiguità tra vecchia e nuova Guer ra Fredda; sulla teologia di Benedetto XVI), L’intima mano è così uno sguardo «a volo d’aquila» sugli snodi essenziali della contemporaneità e un invito a inquadrarli al di là, e al di fuori, della loro ingannevole contingenza.