«È il primo e il più grande di tutti i racconti della nostra tradizione in dialetto napoletano, non solo perché ne è il fondamento, ma perché ne segna anche il punto più alto. Infatti non è una raccolta di fiabe anonime come ce ne sono tante, ma di racconti fiabeschi e fantastici di un unico autore dotato di genio e di grande versatilità ... è il "cunto de li cunti" della plebe napoletana, un'opera letteraria di prim'ordine, ed è l'humus culturale da cui ancor oggi attingono linfa e ispirazione molti scrittori napoletani» (Raffaele La Capria).
Durata più di un trentennio, la contesa fra due dei massimi pensatori del Novecento – Leo Strauss e Alexandre Kojève – ha come oggetto la relazione tra il potere politico e la filosofia come saggezza, e dunque la responsabilità della filosofia in rapporto alla società. Nella prospettiva hegeliana di Kojève: la stessa ragione d'essere della filosofia.
I due sono pienamente d'accordo sull'esistenza di una opposizione tra filosofia e società, ma non concordano sulla soluzione del conflitto. Per Strauss quest'ultimo è inevitabile, e la filosofia deve procedere per la sua strada giacché non vi è soluzione politica compatibile con la verità. Dunque la piena conciliazione tra filosofia e società non è necessaria, non è auspicabile, non è nemmeno possibile, e lo sforzo in quella direzione è destinato solo a essere distruttivo per entrambe. Per Kojève, invece, la filosofia è essenzialmente politica e la politica filosofica, il progresso filosofico e quello politico devono procedere di pari passo verso il loro compimento: un uomo libero che riconosca universalmente di esserlo. E già dietro questa elementare contrapposizione si intravede come la disputa Strauss-Kojève investa tutto il Novecento, secolo dei totalitarismi e dell’invadenza capillare della società nel pensiero. Condotta in pubblico e in privato – come testimoniano i saggi e la densa corrispondenza che compongono questo volume –, la lunga sfida speculativa non era destinata a finire con una conciliazione. E ciò la rende tanto più preziosa, perché le questioni che tratta rimangono aperte e urgenti.
Che cos’è Donguan? Una città, verrebbe da rispondere, se il termine non si applicasse solo per difetto a un enorme agglomerato di fabbriche, collegate da una rete di tangenziali che non contemplano il passaggio, o anche solo la presenza, di pedoni. Ma perché a Donguan arrivano ogni giorno, dalle sterminate campagne di tutto il paese, migliaia di ragazze? Qui la risposta è più semplice: intanto perché le braccia delle giovani donne sono le più ambite, nel mercato del lavoro cinese, e poi perché una ragazza, in un posto come Donguan, può realizzare il suo sogno, l’unico apparentemente concesso, in Cina, oggi: fare carriera. Certo le condizioni di partenza sono durissime: turni massacranti, paghe minime, il tempo che avanza al lavoro reinvestito nell’apprendimento coattivo di quei rudimenti di inglese senza il quale una carriera non può avere inizio. E come alternativa, una bella serata fra colleghe al karaoke aziendale. Ma le ragazze di Donguan – e in particolare le quattro che Leslie T. Chang, in questo suo magnifico e appassionante reportage, ha seguito per anni, un giorno dopo l’altro – sono disposte ad accettare tutto: un nomadismo incessante (per una fabbrica in cui si trova posto ce n’è sempre un’altra che offre condizioni migliori, e in cui bisogna trasferirsi il prima possibile); relazioni personali fuggevoli, ma irrinunciabili, non fosse altro che per le informazioni che ne possono derivare; e una vita interamente costruita intorno al possesso di un unico bene primario, il cellulare (perderlo, in un posto come Donguan, significa conoscere all’istante una solitudine quasi metafisica). Sembra l’anticipazione di un incubo futuribile, ed è invece solo una scheggia di un presente parallelo al nostro, e molto più vicino di quanto vorremmo sperare.
L’opera scientifica che più di ogni altra ci ha avvicinato, in questi ultimi anni, a quel «teatro segreto fatto di monologhi senza parole e di consigli prevenienti, dimora invisibile di tutti gli umori, le meditazioni e i misteri» che si chiama coscienza.
Ma che idea, lasciare la California per un brumoso paesino della campagna gallese! Se non fosse che il paesino è Hay - on - Wye, «la Mecca dei bibliofili», dove c'è una libreria antiquaria ogni quaranta abitanti, e dove si celebra ogni anno uno dei più noti Festival della Letteratura - e se non fosse che il pellegrino è Paul Collins, instancabile e ardimentoso cacciatore di libri perduti e stravaganti. Ingaggiato nel 2000 da Richard Booth, il libraio che nel 1977 si proclamò Re del Principato Autonomo di Hay, Collins si è potuto dedicare per sei mesi alla sua attività preferita: frugare tra cataste di «libri effimeri che fin dall'inizio non erano destinati a durare», e tramandarci le loro storie. Ed ecco le ponderose raccolte di riviste obsolete («La rivista delle meraviglie, composta per intero di materiale classificabile unicamente come MIRACOLOSO! BIZZARRO! STRANO! STRAMPALATO! SOPRANNATURALE! ECCENTRICO! ASSURDO! OSCURO! e INDESCRIVIBILE!»), le memorie apocrife (Sono stata la cameriera di Hitler) o anonime (Le confessioni della moglie di uno scrittore ), gli autori che scrivono dall'aldilà, e le prime edizioni «grigie e pesanti come tombini ». Mentre cerca casa, fantasticando di stabilirsi definitivamente in un grande «pub sconsacrato» del Seicento, il Sixpence House, Collins riesce anche a far domanda per un seggio alla Camera dei Lord (quella «specie di governo mediante copula. Una spermocrazia, se preferite»). Oltre che una incantevole tranche de vie, Al paese dei libri è una sorprendente meditazione sul valore dei libri nel tempo - e sulla volubile sbadataggine del passato, «l'unico paese dove è ancora lecito prendersi gioco degli indigeni».
Il Palazzo della memoria era un sistema mnemotecnico che prevedeva la costruzione di «strutture, forme mentali» composte di «immagini» organizzate in «spazi capaci di immagazzinare gli infiniti concetti costituenti l'insieme delle conoscenze umane». Nel 1596 Matteo Ricci, missionario gesuita, matematico, cartografo e soprattutto primo sinologo europeo, volle insegnare il metodo ai cinesi, nella speranza che avrebbero finito per interessarsi alla religione che rendeva possibili simili miracoli. A questo scopo preparò un libretto, scritto in cinese, in cui illustrò un unico gruppo di quattro «immagini», ognuna collocata in un suo specifico spazio. E qualche anno più tardi, mosso dal medesimo intento missionario, realizzò quattro disegni religiosi che avrebbero fissato nella memoria dei cinesi i momenti più drammatici della Bibbia. «Intorno a quegli otto frammenti, così lontani da noi, ho deciso di costruire a mia volta questo libro» ci dice Jonathan D. Spence, invitandoci a intraprendere «un viaggio in compagnia di Matteo Ricci» _ ovvero a ripercorrere un'avventura umana e intellettuale che non ha eguali. E possiamo immaginare con quale emozione abbia compiuto il viaggio insieme a quello che si può considerare il suo primo e più eminente maestro, perché la stessa emozione si trasmette al lettore, che si trova a rivivere, a tratti quasi fisicamente, l'esistenza di Matteo Ricci nell'Europa e nell'Asia tra Cinquecento e Seicento: dall'infanzia a Macerata ai molti inconvenienti della vita nelle missioni lontane; dai terrifici viaggi per mare ai tentativi di evangelizzazione dell'India, non sempre coronati dal successo; dall'impatto con la spiritualità orientale ai lunghi anni in una Cina che Spence riesce ancora una volta a restituire amalgamando magistralmente l'acribia dello studioso e il talento del grande narratore.
«Ma cos’hanno i romanzi di Simenon, che ci rimangono incollati alle mani e non ci danno tregua fino all’ultima pagina? E perché ogni volta ci lasciano dentro un’amarezza strana, come se ci avessero portato in un punto dove non volevamo arrivare, che non volevamo conoscere? La risposta probabilmente sta nella profonda onestà intellettuale di Simenon, nella sua incapacità di mentire, di raccontarci la vita migliore di quello che è ... di sicuro Simenon era in contatto con la natura profonda della vita, e i suoi romanzi nascono dalla consapevolezza di ciò che veramente sono gli esseri umani, di quali forze segrete li muovono, e di quanto provano inutilmente a dimenticare la propria implacabile sostanza. Una conferma arriva da questo romanzo del 1954, L’orologiaio di Everton » (Marco Lodoli).
Presentando, nel 1973, la silloge di racconti Il mare colore del vino, Leonardo Sciascia ne rivendicava, oltre che la necessità, la profonda coesione interna («tra il primo e l’ultimo di questi racconti si stabilisce come una circolarità»). Una coesione, possiamo oggi precisare, ottenuta a prezzo di esclusioni molto più drastiche e dolorose di quanto Sciascia non lasciasse trapelare («Questi racconti sono stati scritti – con altri, pochi, che non mi è parso valesse la pena di raccogliere e riproporre – tra il 1959 e il 1972»). Basterà leggere in questo volume, tra i quindici racconti lasciati allora cadere, la storia di Calcedonio Fiumara (Il lascito), che, trasformatosi da zolfataro in ricco e rapace possidente, vive solo come un cane, senz’altro amore se non quello per la sua pura e intoccabile ricchezza: e finirà per lasciarla, anziché ai detestati nipoti, a un manicomio, dove nessuno potrà trarne godimento o sollievo. O Una commedia siciliana, che dietro una vicenda in apparenza rocambolesca e a lieto fine – una sartina ritrova il fidanzato creduto morto in un incidente d’auto e se lo sposa – lascia trasparire la faccia terribile e cupa di un paese «circonfuso di limoni e mare», e i due modi d’essere della Sicilia: «uno enfatico e mistificatorio – dialogo, luce, festa – e l’altro chiuso e segreto, corroso da acre violenza e disperazione». A completare il panorama della produzione dispersa di Sciascia, il lettore troverà qui un nucleo di mirabili prose e «cronachette»: come I tedeschi in Sicilia, dove è ricostruito l’eccidio, feroce e immotivato, che nell’agosto del 1943 un reparto tedesco in ritirata compì a Castiglione di Sicilia: eccidio rimasto impunito, giacché in Italia «quel che accade in Sicilia è cosa d’altro pianeta». Per Sciascia, non dimentichiamolo, sono le microstorie a conferire senso e significato alla storia: senza contare che «il gusto della supposizione e il ridestarsi dello spirito possono già bastare a chi, come me, scopre nella storia veri e propri romanzi polizieschi».
In una lettera a Stefan Zweig, Joseph Roth annunciava di avere in cantiere «il romanzo della sua infanzia», destinato ad assumere le dimensioni di un’opera autobiografica «d’ampio respiro». E destinato, secondo l’ultima compagna dello scrittore, a diventare il suo libro più pregevole. Il progettato romanzo, in realtà, non vide mai la luce. Ma il torso che ci è rimasto, Fragole – trovato fra le carte inedite _, si presenta di fatto come un’autentica, incantevole novella. Una novella popolata di sarti, vetrai e ciabattini colti nel natio shtetl galiziano, in uno scenario fatto di distese innevate e di neri stormi di corvi sui campi dalle stoppie dure e pungenti sotto i piedi nudi. Alla ricerca della sua terra perduta _ con il sapore delle fragole di bosco che richiama un intero universo («il succo scaturiva dal frutto e la polpa molle accarezzava il palato») _, Roth riesce a salvare la memoria di una mitica Heimat, racchiudendola nel prezioso scrigno di un racconto poetico e nostalgico come una ballata yiddish. E non meno preziosa, anche se agli antipodi per ambientazione e tenore, è l’altra novella raccolta in questo volume, Perlefter, storia e satira di un borghese ipocondriaco, irresistibile antieroe che sogna avventure grandiose _ laddove le sue sono solo meschine e da tener segrete, come gli indirizzi di certe massaggiatrici che si è annotato, con abbreviazioni solo a lui intelligibili, in fondo al suo calepino, «appena sotto l’elenco delle festività ebraiche». Abitate da una galleria di personaggi degna di Gogol’ e Dickens, ambientate nella Vienna dell’ebraismo assimilato – tra café chantant, club esclusivi e sontuosi hotel _ o in lontane province trasognate, sono pagine in cui ritroveremo, con gioia, il Roth dei suoi libri più amati.
La più terribile fabbrica della morte nazista nel folgorante, esemplare reportage - fondato su testimonianze di prima mano e scritto subito dopo la liberazione del campo, nell'autunno 1944 - da un inviato d'eccezione.