Quando, alla fine del secondo pannello della trilogia, il giovane Tito, signore di Gormenghast, trova la forza di strapparsi al suo reame, la cui bellezza si è ormai corrotta in cupa fatiscenza, le parole della madre - "Non esiste un altrove. Tutto conduce a Gormenghast" - sembrano richiudersi sulla sua fuga come una pietra tombale. Scoprirà che un altrove esiste, ma che è divorato non meno di Gormenghast dal Male: la città a cui approda è solcata dalle disumane meraviglie del controllo poliziesco - figure con l'elmetto che paiono scivolare sul terreno, sciami di velivoli senza pilota simili a equazioni di metallo, globi dalle viscere colorate quasi umane -, sottomessa a una scienza dispensatrice di morte. E nei cunicoli del Sottofiume vive una immane popolazione di reietti, fuggiaschi, falliti, mendicanti e cospiratori che non vedranno mai più la luce del sole. Scoprirà che al di là della sua nessun'altra realtà è per lui decifrabile, così come la sua è per gli altri inconcepibile: lontano da Gormenghast non c'è che l'ossessione del ricordo, e la follia. Dovrà, sorretto dall'aiuto di pochi - il gigantesco Musotorto, l'amorosa Giuna, i transfughi del Sottofiume Cancrello, Frombolo e Sbrago -, combattere, sfuggire a insidie, sottrarsi a ogni vincolo d'amore, amicizia e riconoscenza per conquistare l'unica verità che conti: "Era come una scheggia di pietra, ma dov'era la montagna dalla quale si era staccata?".
Già negli anni Trenta, quando scrisse Addio a Berlino, Christopher Isherwood sosteneva di voler trasformare il proprio occhio di romanziere nell’obiettivo di una macchina fotografica. Ma per lungo tempo – attraverso libri molto diversi fra loro, e spesso segnati dai personaggi fittizi o reali che raccontavano – l’intenzione rimase una di quelle fantasticherie stilistiche che spesso gli scrittori inseguono per tutta la vita, senza realizzarle mai. E invece nel suo ultimo romanzo – questo – Isherwood trasforma una giornata nella vita di George, un professore inglese non più giovane che vive in California, in un’asciutta, e proprio per questo struggente, sequenza di scatti. Non è una giornata particolare per George: solo altre ventiquattr’ore senza Jim, il suo compagno morto in un incidente. Ventiquattr’ore fra il sospetto dei vicini, la consolante vicinanza di Charlotte, la rabbia contro i libri letti per una vita ma ormai inutili, e il desiderio per un corpo giovane appena intravisto ma che forse è già troppo tardi per toccare. Quanto basta per comporre un ritratto che non si può dimenticare, e un racconto che alla sua uscita sorprese tutti, suonando troppo vero per non essere scandaloso.
Il connubio tra immagini e parole, oggi così pervasivo, ha in realtà una storia ben più antica di quel che si tende a credere, e nobili progenitori tanto celebrati in passato quanto ignorati o trascurati dal presente. Tra questi è certamente da annoverare Andrea Alciato, grande erudito, umanista, «austero e insofferente» giurista ricordato tra i numi tutelari della gloriosa università di Pavia. Il suo Emblematum liber (1531), galleria di situazioni umane trasfigurate in metafore, doveva trasmettere – similmente agli Adagia di Erasmo da Rotterdam, suo corrispondente – un patrimonio di saggezza e moralità facendo ricorso anche all’efficacia del mezzo iconografico. Divenne invece l’archetipo di un genere di letteratura che non solo conobbe uno straordinario successo in Europa fin dalla sua nascita, quasi cinquecento anni fa, ma esercitò un influsso sbalorditivo, tanto da costituire la chiave che dà accesso a molta parte dell’arte e della letteratura successive. Il libro degli emblemi è ora presentato in un’edizione che costituirà il soddisfacimento di un desiderio per gli studiosi – che denunciavano un sorprendente vuoto editoriale – e un’entusiasmante scoperta per tutti gli altri lettori, che potranno ripercorrere i pensieri e gli studi da cui sorse un’idea semplice e geniale: creare parole dalle quali possano fiorire immagini e viceversa, in uno sposalizio etico e filosofico dove si ascolta l’immagine e si visualizza la parola.
Il tempo passa per tutti, ma non per Maigret. Lavora alla Polizia giudiziaria da trent’anni, la pensione non è lontana, e la signora Maigret sta persino prendendo lezioni di guida in modo che durante il fine settimana possano raggiungere più facilmente Meung-sur-Loire e la loro casa di campagna. Eppure il commissario non ha affatto perso la sua miracolosa capacità di prendersi a cuore ogni inchiesta come fosse la prima, di assorbire come una spugna l’atmosfera degli ambienti in cui indaga, e soprattutto di mettersi nella pelle degli altri. Persino del giovane pallido, dall’aria stanca e ansiosa, che prima lo alleggerisce del portafogli sull’autobus, poi gli rispedisce il maltolto, distintivo compreso, al Quai, e infine lo convince a seguirlo nel surreale appartamento in cui vive per mostrargli il cadavere della moglie Sophie, freddata la notte prima con un colpo di rivoltella alla testa. Fragile, tormentato, geniale, aspirante romanziere o forse sceneggiatore, François Ricain detto Francis si aggrappa a Maigret come a una zattera e lo trascina in un milieu di giovani intellettuali ambiziosi, squattrinati e ribelli, che si accompagnano a ragazze dai capelli cotonati e l’espressione imbronciata, passano le loro notti tra fumo e alcol e sembrano fregarsene di tutto e di tutti – «dei selvaggi, scostumati e maleducati», secondo i vicini. Di rado qualcuno ha incuriosito Maigret quanto Francis. Con lui si mostra stranamente comprensivo, quasi indulgente. E c’è una ragione segreta: che avrebbe fatto lui, integerrimo tutore della legge, se avesse avuto un figlio come Francis?
Un certo Lord Petre ebbe l’ardire di tagliare surrettiziamente un ricciolo di Lady Arabella Fermor – e il gelo calò fra le due famiglie. Finché un giovane e già celebre poeta ricevette il delicato incarico di scrivere un testo che contribuisse a rasserenare gli animi. Futile occasione, si direbbe: se non che l’artista interpellato era il beffardo e geniale Alexander Pope, «piccolo usignolo» della Chiesa cattolica nell’Inghilterra settecentesca. Così solleticato, Pope compose un poemetto che per inventiva, passionalità ed estro poetico tocca punte di epicità omerica: non per niente lavorava a quel tempo a una memorabile traduzione dell’Iliade. La sua, però, è una guerra in miniatura, incentrata sull’eterna, risibile guerra dei sessi, dove l’infinitesimale, come in un reame gulliveriano – lo ha notato Peter Ackroyd –, giganteggia: «houppettes, nèi, ciprie, bibbie, billets-doux» recita un verso.
Inutile dire che Il ratto del ricciolo riscosse un immediato, immenso successo di pubblico e suscitò inviperite reazioni nella buona società. Ma Pope non era tipo da subire passivamente le rampogne. E per ribattere trovò la soluzione ideale: si sobbarcò alla – per così dire – pars deconstruens, e scrisse un commento che è una chiave di lettura ultratendenziosa della sua stessa opera nonché la satira di ogni pretesa interpretativa. Utilizzando argomenti «coerenti e inconfutabili», stigmatizzò la fobia papista che avvelenava il clima inglese, fustigò pedanti e petulanti – e inventò una nuova forma di autopromozione.
Vede finalmente la luce, a poco più di trent’anni dalla scomparsa di Vladimir Nabokov, il suo ultimo romanzo incompiuto, a lungo oggetto di insaziabile curiosità da parte di lettori e critici. Sentendo avvicinarsi la fine, nel 1977 lo scrittore raccomandò alla moglie di distruggere le 138 schede manoscritte cui era affidata la prima stesura dell’Originale di Laura qualora non fosse riuscito a completarlo. Véra Nabokov, tuttavia, non ebbe cuore di rispettare tale volontà, e alla sua morte, nel 1991, il peso della scelta ricadde sul figlio Dmitri, che per decenni si è dibattuto nel dubbio se ottemperare o meno alla richiesta. Da ultimo, è prevalsa la decisione di rendere pubblico «un capolavoro embrionale i cui bozzoli di genio cominciavano a trasformarsi in crisalide qua e là sulle sue onnipresenti schede» e che ci immette direttamente nello straordinario laboratorio nabokoviano. Oscuro eppure festante, dominato da un giocoso concetto della morte e da una beffarda visione dei riti mondani, L’originale di Laura ruota intorno a un romanzo nel romanzo, ovvero Laura, di cui è ispiratrice la ventiquattrenne Flora, capriccioso e sensuale alter ego di Lolita. Accanto a lei, fra i molti personaggi delineati con rapidi tratti folgoranti, spicca il marito Philip Wild, neurologo e docente di fama sedotto da nuovi esperimenti sulle cellule nervose capaci di indurre una graduale ancorché reversibile estinzione del corpo. Nabokov gioca qui, per l’ultima volta, ad affacciarsi sull’abisso dell’ineluttabile fine, ma come sempre trasforma la morte in un atto revocabile che, giunto l’istante fatale, evapora nelle magie dell’illusionismo. Gioca con la strenua aspirazione a dominare la vita e l’immortalità per poi rivelarci che «morire è divertente». Gioca con un labirinto di specchi dove i confini tra realtà e finzione sono aboliti e ciascuno si ritrova a vagare da solo.
«Quando il pensiero, chiamato da una questione, la segue, durante il cammino può accadergli di mutare. Per questo è consigliabile, qui di seguito, prestare attenzione alla via, e meno al contenuto». Con queste parole si apre il primo dei testi raccolti in Identità e differenza, preziose testimonianze di due conferenze tenute nel 1957, in cui Heidegger dà alla propria speculazione una forma meno didattica che nei corsi universitari, ma anche meno esoterica che nei trattati. Nel celebre Il principio di identità viene indicata l'opportunità di «staccarsi dall'atteggiamento del pensiero rappresentativo», compiendo un «salto» al di fuori del principio di identità e della metafisica che su di esso si fonda per lanciarsi nell'abisso dell'Evento, in cui uomo ed essere coappartengono. In La struttura onto-teo-logica della metafisica, attraverso un serrato colloquio con Hegel, ed esperendo «nella loro autentica importanza termini ormai usurati come “ontologia”, “teologia”, “onto-teologia”», Heidegger esorta a fare il «passo indietro» che ci trasferisca «dalla metafisica all'essenza della metafisica». Un passo indietro che preparerebbe quel contromovimento di pensiero in grado di sottrarre l'uomo al nichilismo della tecnica: «Ciò che è stato detto lo si è detto in un seminario. Come indica la parola, un seminario è un luogo e un'occasione per spargere qua e là un seme, un granello di pensiero meditativo che prima o poi, una volta o l'altra, a modo suo, potrà schiudersi e dare frutti».
«Si voglia o no, piaccia o no ai fini letterati che, come diceva Céline, passano il loro tempo a infilare perline (ma il suo paragone era molto più crudo), l’opera di Simenon è una delle fondamentali del Novecento, una coerente e vasta rappresentazione di una condizione umana più comune di quanto non vogliano i letterati, e come hanno invece capito tanti filosofi o teologi. Queste Memorie intime aggiungono molto alla comprensione dell’opera simenoniana e sono loro il vero “romanzo autobiografico” di Simenon ... sono uno dei grandi libri di Simenon, un’interrogazione profonda che, per molti versi, per molti lettori, può stimolare la stessa adesione sofferta e rivelatrice dei suoi grandi romanzi».
Siamo a New Orleans – che qui si chiama New Valois, ma rimane perfettamente riconoscibile – a metà degli anni Trenta. Un cronista a caccia di storie vendibili arriva in un piccolo aeroporto, dove familiarizza con i protagonisti di un cupo ménage à trois: un pilota che si guadagna da vivere col volo acrobatico alle fiere dell’aria; sua moglie, molto androgina in tuta, molto meno senza; e l’amante, un paracadutista che potrebbe essere il vero padre del figlio che i due hanno avuto. E lo scoop non tarderà, perché gareggiando su un vecchio «monoguscio» – molto simile a quello che Faulkner stesso possedeva – il pilota troverà la morte nelle acque di un lago. Anziché il mélo che avrebbe potuto diventare – e che diventerà al cinema qualche anno dopo, nelle mani di un maestro del genere come Douglas Sirk –, Pilone si presenta come un romanzo fatto di molti romanzi. È infatti un reportage sul mondo degli aerei, che attraverso l’accumulo di dettagli anche tecnici approda a una stilizzazione quasi metafisica del volo; è un omaggio all’Eliot degli Uomini vuoti, perché ogni personaggio qui sembra un «cittadino del mondo delle ombre», sempre sul punto di cedere alla vertigine per l’alcol, il pericolo mortale, o il sesso; ed è, ancora una volta, una sgomenta interrogazione sul posto dell’uomo in una Natura smagliante e inesplicabile, che si estende dal «lieve, sibilante lamento delle conchiglie frantumate» fino a un cielo di «fitte, fioevoli stelle». È insomma Faulkner, o se si preferisce è la materia stessa di cui è intessuto il suo mondo.
Un paio di decenni fa Iosif Brodskij ebbe a scrivere di Walcott: «Per quasi quarant’anni, senza sosta, i suoi versi pulsanti e inesorabili sono arrivati nella lingua inglese come onde di marea, coagulandosi in un arcipelago di poesie senza il quale la mappa della letteratura moderna assomiglierebbe, di fatto, a una carta da parati». Un arcipelago al quale, da allora, non hanno mai smesso di aggiungersi nuove isole, ma le cui coordinate sono rimaste immutate: dalle promesse giovanili di In una notte verde – imparare «a soffrire in giambici accurati», «lodare finché amore duri, i vivi e i morti bruni» – alle riflessioni sull’arte e sulla vecchiaia del Prodigo. Una dedizione totale alla poesia e una preoccupazione per la condizione umana nate dalla volontà di rimanere fedele a un’epifania precoce – magistralmente narrata nel poema autobiografico Un’altra vita – che, alla maniera di Dante, ha segnato e continua a segnare il corso di un’intera esistenza. Ripercorrere l’avventura letteraria di Walcott significa assistere al dispiegarsi di un dono poetico capace, come forse nessun altro ai nostri giorni, di coniugare il lampo lirico dell’istante «in cui ogni sfaccettatura» è «còlta in un cristallo di ambiguità» con il gesto aperto e impersonale dell’epica. Il risultato, sulla pagina, è un’opera di straordinaria versatilità formale, magnificenza linguistica e precisione metaforica, costantemente illuminata da una compassione ampia, come nei grandi poeti di ogni tempo.