Difendere i paesaggi reali dipinti da Piero della Francesca è importante quanto difendere le sue tele; educare i giovani a intendere l'uno e l'altro è assicurare che quel paesaggio e quel dipinto costituiscano un'eredità di bellezza da trasmettere alle future generazioni. L'Italia ha un'invidiabile tradizione artistica che da secoli ne fa una meta abbligata per i viaggiatori, letterati, uomini di cultura da ogni parte del mondo che vengono a scoprire bellezze antiche e moderne. Consaevole di questo primato Giovanni Gentile nel 1923 inserì l'insegnamento della storia dell'arte nei licei classici: provvedimento negli anni eroso e annacquato, malgrado dall'arte l'Italia tragga un fiume di turisti e moneta pregiata. L'autore ripercorre queste vicende fino ai giorni nostri e propone nuove linee di metodo per il rinnovo della disciplina. non una storia di capolavori e di maestri nozionistica, ma una conscenza di grado in grado più approfondita che sappia avvicinare i giovani a questo immenso patrimoniodi oggetti d'arte, musei, città e paesaggi. Una disciplina che sappia dialogare con storia e letteratura.
Fra il 28 ottobre 1958, data dell'elezione di papa Giovanni XXIII, e il 3 giugno 1963, data della sua morte improvvisa, l'universo cattolico venne illuminato da un susseguirsi di aperture destinate a incidere radicalmente sul modo di pensare e di vivere dei credenti, ma non solo: cambiarono i rapporti fra gerarchie e clero e fra clero e laici, la dottrina e la pastorale della Chiesa in materia di liturgia e sacramenti; negli stessi anni si modificarono d'un tratto i parametri della vita coniugale e della procreazione responsabile, gli spazi della sessualità, i criteri dell'educazione dei figli. Cambiò anche il rapporto fra Chiesa e mondo, ivi compresa la decisiva distinzione fra l'errore e l'errante, fra ciò che la Chiesa deve condannare e ciò che può perdonare. Il Concilio Vaticano II fu il grande evento ecclesiale cui spettò di liberare le energie per un rinnovamento che aveva i tratti di una palingenesi. Al centro di questo soffio riformatore, un uomo, Angelo Roncalli, universalmente conosciuto come il "papa buono". In realtà Roncalli si rivelò in possesso di una raffinata competenza nelle mediazioni politiche, un uomo che sapeva vedere oltre gli orizzonti contingenti, individuando e suggerendo nei "segni dei tempi" i nuovi fondamentali passaggi che attendevano la Chiesa pellegrina sulla Terra.
I rapporti tra la Santa Sede e il Terzo Reich sono da sempre stati oggetto di controversie, ipotesi ardite, leggende e mitologie dovute spesso alla mancanza di testimonianze e documenti che suffragassero l'una o l'altra tesi. Grazie a una minuziosa analisi delle nuove fonti degli Archivi vaticani, rese accessibili solo negli ultimi anni, il volume di Wolf riesce a rispondere ad alcune questioni nodali che la ricerca storica aveva finora dovuto lasciare aperte: qual era la visione vaticana della Germania negli anni che segnano l'ascesa al potere del nazionalsocialismo? Cosa si sapeva del movimento hitleriano? Quali erano i rapporti tra la Chiesa tedesca e la centrale romana? Fino a che punto il Vaticano è stato disposto a trattare con il "diavolo", pur di garantire l'assistenza spirituale ai propri fedeli? Sulla base di documenti inediti, l'autore ricostruisce il panorama dei rapporti tra Vaticano e Terzo Reich negli anni che vanno dall'inizio della Repubblica di Weimar allo scoppio della seconda guerra mondiale, con una particolare attenzione al ruolo di Eugenio Pacelli, Pio XII, dalla nomina a nunzio apostolico nel 1917 fino all'elezione a papa nel 1939.
Uno e molteplice, il Novecento si chiude sollecitando i contemporanei a una riflessione che va al di là delle scadenze del calendario. Difficile dire se si sia trattato di un periodo omogeneo e dotato di autonoma identità; se sia stato - come si dice - un'epoca della storia del mondo. Alla terribile grandiosità degli eventi che lo hanno scandito, e che da un lato hanno unificato, dall'altro frantumato la storia del genere umano, si è unito il moltiplicarsi dei punti di vista, delle discipline, dei criteri interpretativi, il diversificarsi delle emozioni e delle memorie. Crisi della linearità, crisi dell'idea stessa di un filo rosso omogeneo e "progressivo". Sovrapposizione dei tempi, degli spazi e dei contesti. I saggi qui raccolti percorrono i grandi temi e i differenti campi di questa complicata vicenda, ma convergono tutti sulla domanda finale. Ha un senso, che senso ha, quanti sensi può avere, la storia del Novecento? Coordinate da Claudio Pavone, si alternano in queste pagine le riflessioni di alcuni tra i più autorevoli storici contemporaneisti. A chiusura del volume una conversazione tra Claudio Pavone e Vittorio Foa: una testimonianza e una riflessione sui nodi cruciali del controverso "secolo breve".
L'arco di anni che racchiude la vita di Machiavelli (1469-1527) si presenta come un'età di profonde trasformazioni, che investono la stessa visione del mondo fino allora dominante. Le grandi navigazioni e i viaggi di scoperta spalancano orizzonti sconosciuti. Nel frattempo, l'Italia e l'Europa attraversano vicende cruciali: la Francia, superato il secolare conflitto con gli inglesi, ristabilisce la sua potenza; i regni spagnoli si uniscono sotto una sola corona che si avvia a imporre la propria egemonia in Europa; gli Stati italiani sono travolti da guerre che ne mettono in crisi radicale l'autonomia. E nel 1517 si accende in Germania la rivoluzione religiosa protestante, destinata a mettere in luce ì cambiamenti profondi avvenuti nelle credenze e nei sentimenti popolari, e a proiettare sul futuro dell'Europa le sue conseguenze più drammatiche: le guerre di religione e l'offensiva della Controriforma cattolica. Machiavelli è consapevole delle trasformazioni che stanno alterando la scena del mondo, e avverte l'esigenza di adeguare ad essa le istituzioni e le regole della vita politica. Cogliere il nesso fra la sua attività e le sue opere, divenute ben presto fondamentali per comprendere le vicende degli uomini uniti in società politiche, è il motivo dì fondo di questo libro: fondata sulla lezione delle cose antiche e sull'esperienza delle cose moderne, l'opera del Segretario fiorentino si mostra così in grado di promuovere una migliore intelligenza dei tempi e del mondo.
"Naufraghi nella tempesta della pace": un documentario della "Settimana Incom" del 1947 evocava così la tragedia dei profughi dell'Istria. Si aggiungevano a milioni e milioni di altri "naufraghi", frutto degli sconvolgimenti della guerra e del dopoguerra: milioni di persone sradicate dalla propria terra dalle deportazioni operate dalla Germania nazista e dalla Russia staliniana, ex prigionieri, donne e uomini in disperata fuga dall'inferno della Shoah o dalle zone martoriate dagli spostamenti del fronte. E a questa marea di profughi se ne somma un'altra, alimentata da milioni di persone espulse a forza dai paesi dell'Europa centro-orientale. Il dramma delle popolazioni tedesche ha qui un rilievo centrale: già con la fuga disperata davanti all'Armata rossa nell'ultima fase della guerra, e poi con le espulsioni dell'immediato dopoguerra dalla Cecoslovacchia, dalla Polonia, dall'Ungheria, dalla Romania, dalla Jugoslavia, ove il loro dramma si aggiunge a quello degli italiani dell'Istria. Si pensi ai polacchi e agli ucraini vittime di feroci espulsioni reciproche da territori in cui avevano convissuto per secoli, e ad altre sofferenze ancora: si inizieranno allora a intravedere i contorni di una fra le pagine più rimosse della storia europea. Questo studio illumina alcuni squarci di questa vicenda, in cui drammi personali e collettivi si intrecciano, ed evoca le ferite di memoria che quel trauma ha lasciato.
Quali sono gli elementi portanti del discorso sulla morte per la patria e del culto dei caduti in Italia? Quando e in quale contesto nascono? In quale misura sono prodotti culturali e politici "importati" da altri paesi? Quali sono le fasi principali, quali le cesure e le continuità più significative? Dal Risorgimento a oggi in Italia il culto dei caduti e il morire per la patria hanno rappresentato un fattore essenziale nella sacralizzazione della nazione, la cui apoteosi trovava la sua espressione più marcata nella legittimazione nazionale della morte in guerra, sacrificio del singolo per la comunità politica. Prende il via in questo modo una secolarizzazione del concetto cristiano di vita eterna, plasmato sulla nazione. Gli autori, storici dell'età moderna e contemporanea, attraverso le rappresentazioni simboliche del lutto, analizzano le forme che il tentativo di nazionalizzazione delle masse ha di volta in volta assunto. Dall'esaltazione ottocentesca degli eroi, immortalati nei monumenti, il più vistoso dei quali il Vittoriano, si passa alla commemorazione delle vittime di guerra. L'elogio dell'individuo si trasfigura nella celebrazione del Milite Ignoto. Nel secondo dopoguerra sono pochi gli eroi: si ha piuttosto una massificazione della morte ignota che coinvolge anche i civili. Sopravvive tuttavia una tradizione militare che, attraverso l'encomio solenne della morte eroica, mantiene vivo il legame con il passato risorgimentale.
.Welfare state. è ormai diventata un'espressione sconveniente. Da qualche tempo impera una sorta di tirannia degli stereotipi del neoliberismo, impostasi sia sul piano teorico che su quello empirico. Va di moda predicare la destatalizzazione, il trionfo di un ordinamento privatistico su scala globale, l'integrazione pre-politica e pre-statale della società mondiale affidata all'automatico coordinamento del mercato, l'isolamento e la spoliticizzazione dei cittadini, che renderebbero superflua la creazione della cittadinanza e dell'identità civica. Nonostante i ripetuti fenomeni di crisi (specie finanziaria) che attraversano le nostre economie e le nostre società, il neoliberismo non si mostra per niente in disarmo; l'ultima tendenza, che nella versione nostrana ha conosciuto recenti successi editoriali, sta nella sua aggressiva riproposizione .populista., volta a criticare gli eccessi del .mercatismo., e a rilanciare strategie - o tattiche? - di autodifesa protezionistica. Laura Pennacchi affronta in modo ragionato questi influenti luoghi comuni, troppo spesso subiti acriticamente, e ne discute con rigore e competenza, senza rinunciare a quella vis polemica che sembra ormai smarrita. Ne scaturisce una difesa convinta e convincente non solo dell'efficacia, ma anche della moralità delle politiche di redistribuzione, cui lo Stato non può rinunciare se vuole ancora perseguire il suo conclamato presupposto di equità.
"Mia madre, Soumini, e mia nonna, Janaki, hanno appagato la mia sete di miti e leggende. E quando ho cominciato a scrivere questo libro, ho cercato di ricreare le loro storie e la loro arte nel raccontarle". Apre così la sua raccolta, ispirata al patrimonio magico e mitologico dell'India, Anita Nair. È una rivisitazione dell'immaginario della sua India quella che propone in questi racconti, rivolti in primo luogo ai bambini indiani: un universo mitologico ricco di dei, demoni, asceti, re mitici e animali magici, che sin dalla notte dei tempi scandisce la ricerca del senso della vita terrena, dell'avvicendarsi delle stagioni, dei sentimenti e delle passioni dell'animo umano, del conflitto perenne tra le forze del bene e del male. Krishna e Vishnu, Shiva e Brahma, gli asaro demoniaci sempre a caccia dell'amrita, il nettare della vita eterna, e ancora gli avatar, incarnazioni di un dio. Anita Nair trasmette questo patrimonio di fiabe e di miti alle nuove generazioni e alle altre culture. Cinquanta storie che si dipanano in un intreccio tra favola e mito; storie in ciò assai diverse da quelle della mitologia dell'Occidente: eppure, come osserva Francesca Emilia Diano, esse sono "manifestazioni che si diramano nel tempo e nello spazio in infinite direzioni e gemmazioni, che tessano trame senza fine, segnando di sé ciascuna cultura, tanto che forse non è una cultura che crea i suoi miti, ma l'opposto". Età di lettura: da 10 anni.
Fin dove è lecito parlare di sesso, di eutanasia o di fecondazione assistita in televisione? È bene che un neonazista, un mafioso, un pedofilo abbiano una loro ribalta nei media, in nome del diritto all'informazione? Questioni che toccano i confini di accettabilità del discorso dei media intorno a temi controversi. Nasce da qui una "preoccupazione etica", una consapevolezza del fatto che il sistema dei media parla contemporaneamente a più persone, propone modelli comportamentali in conflitto, racconta storie reali e in ciascuna di tali occasioni applica e legittima principi morali condivisi. Essi trovano spazio di esemplificazione all'interno di film, fumetti, talk show o reality nei quali non è difficile riconoscersi. Ci si attende però, al contempo, che i media mantengano essi stessi una condotta etica, nel senso di rispettare norme che consideriamo fondamentali per tutelarci come cittadini e come lettori-spettatori. Tali norme sono comprese nel quadro di leggi e codici di autoregolamentazione. La "preoccupazione etica", così, alla fine tocca regole e modelli morali "rappresentati" nei messaggi insieme a regole e modelli morali "applicati" ai messaggi, ponendo l'interrogativo centrale del libro. Se cioè occuparsi di comunicazione comporti un "ragionare etico" parzialmente diverso da quello necessario altrove, tanto da individuare nei media un ambito specifico, e perciò anche originale, di considerazione.