"Dai nostri bambini impariamo moltissime cose. E quante altre potremmo impararne, da tutti i bambini del mondo. Ora che i nostri bambini vanno a scuola con bambini di ogni parte del mondo, è tempo di tornare tra i banchi anche per noi. Grazie a questo libro appassionato e ricco di esperienze preziose possiamo farlo. Giuseppe Culicchia Vinicio Ongini va al concreto e viaggia attraverso le scuole italiane documentando difficoltà e scacchi della scuola multiculturale. Chi, dall'informazione corrente, è frastornato da notizie di casi di xenofobia farebbe bene a seguirlo nel suo viaggio, a leggere i suoi concreti e suggestivi 'casi di studio'. Se un rimprovero si può muovere alla nostra scuola è che non sempre essa è ben consapevole di quanto ha fatto, sa fare e fa per l'intero Paese. Il libro di Ongini, tra gli altri meriti, può essere d'aiuto, può stimolare il giusto orgoglio della nostra scuola pubblica." (Dalla Prefazione di Tullio De Mauro). Cosa si guadagna, se si guadagna, con gli alunni stranieri a scuola? Vinicio Ongini fa parlare i protagonisti della scuola italiana multiculturale: bambini e insegnanti, studenti, presidi, genitori, ma anche il gelataio del quartiere e il sindaco del paese, la tabaccaia di fronte alla scuola e la signora torinese immigrata in Calabria. Saremo sorpresi dalla realtà di una scuola dignitosa ma quasi invisibile, una scuola normale, che costruisce giorno per giorno, con i materiali che ci sono. E che nemmeno ci pensa di togliere il disturbo.
"Queste pagine non sono una strada obbligata. La persuasione e l'esperienza che ho di ciò che ho scritto, sono proposte agli altri, come elementi che possono esser tenuti presenti per applicazioni, svolgimenti, reazioni. Sono convinto che anche uno che approvasse tutto ciò che ho detto, lo vivrebbe tuttavia diversamente e vi metterebbe qualcosa di proprio, che io non potrei prevedere, e di cui potrei rallegrarmi. Sono arrivato a pensare queste pagine dal vivo della pratica, da problemi trattati, discussi, e da decisioni dovute prendere; così mi sembra che il modo migliore di leggerle sia quello di essere aperti a riferimenti di esse con iniziative e decisioni che il lettore stesso possa prendere": in queste parole è racchiuso lo spirito di questo classico, pubblicato la prima volta nel 1955 e incredibilmente messo all'Indice dei libri proibiti dal Vaticano. Aldo Capitini - filosofo, politico, antifascista ed educatore - affronta i temi a lui più cari: da quelli che riguardano la vita di tutti (la morte, il dolore, l'amore, la prassi religiosa) a quelli più teorico-filosofici come la questione della nonviolenza e il rapporto fra religione e laicità, le forme del cristianesimo e la figura di Gesù Cristo, i preti operai e i cattolici, le relazioni fra Oriente e Occidente e il movimento di Gandhi. Un volume che non ha perso di attualità come testimonianza appassionata per una radicale "trasformazione della realtà stessa".
"Quando lo Stato privatizza una ferrovia, una linea aerea o la sanità, o cerca di privatizzare il servizio idrico integrato (cioè l'acqua potabile) o l'università, esso espropria la comunità (ogni suo singolo membro prò quota) dei suoi beni comuni (proprietà comune), in modo esattamente analogo e speculare rispetto a ciò che succede quando si espropria una proprietà privata per costruire una strada o un'altra opera pubblica". In questo agile volume Ugo Mattei ragiona attorno a un tema di grande attualità internazionale perché pensare ai beni comuni significa "innanzitutto utilizzare una chiave autenticamente globale che pone al centro il problema dell'accesso e dell'uguaglianza reale delle possibilità su questo pianeta". Dalla lotta per l'università e la scuola pubblica a quella per l'informazione critica; dalle battaglie contro il precariato e per un lavoro di qualità a quelle contro lo scempio e il consumo del territorio; dalla lotta contro la privatizzazione della rete internet a quella contro le grandi opere (TAV, Dal Molin, Ponte sullo stretto), i beni comuni ci riguardano da vicino. Ugo Mattei li considera come riconquista di spazi pubblici autenticamente democratici, base per un pensiero politico e istituzionale nuovo e radicalmente alternativo fondato sulla qualità dei rapporti e non sulla quantità dell'accumulo.
Oggetto di studio della semiotica è il testo, sia esso un racconto o un quadro, una fotografia o uno spot, un centro commerciale, un'intera città, ma anche una conversazione fra amici o una pratica rituale. Preoccupandosi di rintracciare le forme mediante cui le culture umane si dotano di un senso umano e sociale, la semiotica descrive testi, analizzandone i modi di funzionamento, le strategie di costituzione e di dissoluzione, le stratificazioni, le trasformazioni, le procedure di traduzione in testi ulteriori. Così facendo, essa si propone come uno sguardo critico nei confronti della società e della cultura, come analisi, interpretazione e vantazione di tutto ciò che ci circonda. Gianfranco Marrone introduce ai principali modelli d'analisi semiotica dei testi, mostrando con semplicità e chiarezza il loro uso con una serie di esempi a vasto raggio.
Divenuto strumento centrale, sebbene non unico, della repressione politica nell'Italia fascista, il confino di polizia, basato sulla pratica del detenere senza imputare, contribuì considerevolmente a distruggere le basi dello Stato di diritto nel nostro paese. Per la sua procedura, più veloce e agile rispetto a quella di un processo penale ordinario, questa misura fu facilmente applicabile: per essere assegnati al confino era sufficiente un mero sospetto di pericolosità. Camilla Poesio esamina, oltre agli aspetti tecnici della misura punitiva, anche il rapporto pubblico/privato individuato nello studio di documenti ufficiali e di testimonianze, diari e memorie. La vita di coloro che conobbero quest'esperienza fu infatti segnata dalle dure condizioni alimentari, abitative, sanitarie, dalle violenze fisiche e psicologiche commesse dalle guardie e dalla sostanziale indifferenza della popolazione locale. Essere diventati cittadini senza diritti, non potere disporre di alcuna garanzia, non potere rispondere e controbattere alle accuse era l'aspetto più duro da sostenere per i confinati. L'analisi dell'intreccio fra sfera individuale e contesto generale restituisce uno spaccato chiaro della repressione fascista e demolisce il persistente giudizio sul confino come uno strumento blando e con poche conseguenze sulla vita dei detenuti.
Che ruolo hanno i rabbini nella vita istituzionale delle odierne comunità ebraiche? E che funzioni hanno ricoperto nel passato, nella diaspora europea, e ancora più indietro nel tempo all'epoca del Tempio di Gerusalemme? Chi li nomina? Quali funzioni vengono loro attribuite dalle comunità ebraiche? Per rispondere a queste domande, che già si poneva in modo esplicito e provocatorio Napoleone nel 1806 e che ritornano con una certa frequenza ancora oggi, Gadi Luzzatto Voghera disegna le caratteristiche di una classe di dotti che nei secoli ha saputo sintetizzare competenze giuridiche, pensiero filosofico, sapere scientifico, inventiva letteraria, ricerca storica, per approdare, in epoca di emancipazione, a occuparsi con maggior continuità di culto, educazione, rappresentanza e custodia della tradizione. Questioni complesse che ritornano spesso e che presuppongono l'idea non proponibile di una storia omogenea e immobile della civiltà ebraica, ma piuttosto la necessità di comprendere a fondo le dinamiche che hanno portato alla nascita e poi alle successive trasformazioni del rabbinato, attraverso un percorso storico affascinante eppure non lineare, imprescindibile secondo Luzzatto Voghera per capire la millenaria vicenda della storia ebraica e di una delle grandi religioni monoteiste.
«Nel corso del nostro studio è emerso con sempre maggiore chiarezza un fatto che avrebbe certamente scandalizzato la Chiesa e i cristiani dei trascorsi secoli e che indubbiamente non mancherà di stupirne ancora qualcuno ai nostri giorni: le immagini di Dio cambiano.»
Esiste un Dio dei chierici e uno dei laici, un Dio dei potenti e uno degli umili, un Dio dei poveri e uno dei ricchi. Jacques Le Goff affronta l’argomento in grado di schiudere la piena comprensione del Medioevo. La sua indagine scava tra i testi, le immagini, i rituali dei cristiani medievali e approda a una tesi sorprendente: se ufficialmente Dio era unico, nei fatti le cose stavano altrimenti.
Se venissimo interrogati sull’immagine che di Dio si fanno i nostri contemporanei, probabilmente ce la caveremmo con qualche generico luogo comune, oppure diremmo che la tematica è troppo complessa per essere liquidata in poche parole. Se poi l’interlocutore passasse a chiederci una panoramica dei punti di vista su Dio che hanno avuto gli europei negli ultimi cinquecento anni, finiremmo per sorridere, adducendo l’impossibilità di raccogliere anche solo in un libro un tale ventaglio di prospettive. Eppure ci sono studiosi dotati di una tale capacità di sintesi e una tale chiarezza di divulgazione da riuscire a tratteggiare con serietà ed esaurientemente quale fosse il volto di Dio nei paesi del Sacro Romano Impero su un arco di tempo di quasi mille anni. Uno di questi rari personaggi è Jacques Le Goff.
Enzo Bianchi, “Tuttolibri”
Jacques Le Goff è tra i massimi storici del Medioevo. Dall'inizio della sua carriera non ha mai cessato di esplorare la mentalità medievale e ne ha profondamente rinnovato la storia. La lista delle sue opere e dei riconoscimenti internazionali ricevuti è impressionante. Per i nostri tipi è direttore della collana "Fare l'Europa" e ha pubblicato la maggior parte dei suoi libri.
«Quando gli elefanti litigano, povera l’erba…». In altre parole, quando lo Stato e il mercato litigano, poveri voi...
«Nella modernità liquida raramente una cosa mantiene la sua forma abbastanza a lungo da ispirare fiducia e da solidificarsi in affidabilità. Camminare è meglio che rimanere seduti, correre è meglio di camminare e fare surf è ancor meglio di correre». La tempesta perfetta provocata dall’attuale tsunami finanziario si è abbattuta sulla società liquida di consumatori che aspettava soltanto una nuova onda su cui ‘surfare’. Ad andare in pezzi è l’utopia dominante di questi anni, quella che vedeva il dominio di un mercato capace di autoregolarsi, in cui esisteva soltanto un contatto armonioso tra chi vende merci e chi le acquista. Una fede che assegnava al credito al consumo un ruolo ‘magico’, finanziando tutti senza alcuna precauzione, declassando lo Stato semplicemente a garante della fluidità di questo scambio. Lo stesso è avvenuto per la cultura il cui slogan è diventato «massimo impatto e obsolescenza immediata»: le idee si sono trasformate in merci da accatastare sugli scaffali di un supermercato globale dove devono attrarre l’attenzione dei consumatori immediatamente ed essere sostituite in pochissimo tempo. Nella fase ‘solida’ della modernità un sistema culturale doveva offrire norme rigide e narrazioni coerenti alle quali conformarsi, nei nostri tempi liquidi, all’opposto, suggestioni ed emozioni che seducono e non implicano obblighi e responsabilità. Una massa di informazioni e di sapere colorata e affascinante, pronta a soddisfare bisogni sempre più parcellizzati ed individuali, in cui non esiste una gerarchia centrata sull’importanza e la qualità. Zygmunt Bauman, con la consueta chiarezza e grazie all’uso di metafore potenti, mostra come la crisi attuale non riguardi soltanto l’economia, ma la capacità stessa della nostra società di trasmettere conoscenza e valori attraverso l’educazione. Una sfida incomparabile con quelle del passato e destinata a segnare il nostro futuro: «l’arte del vivere in un mondo più che saturo di informazioni deve essere ancora acquisita. E ancor di più lo deve la ben più difficile arte di educare gli esseri umani a questa vita».