Espulso dalla Svizzera – era nato a Zurigo nel 1899, da madre italiana emigrata e da padre ignoto – Antonio Ligabue approda nel 1919 a Gualtieri, luogo di origine dell’uomo che l’ha legittimato, dandogli il proprio cognome, Laccabue (che poi Antonio muterà in Ligabue).
L’infanzia e l’adolescenza sono segnate dall’abbandono (a soli nove mesi di età viene affidato dalla madre a un’altra famiglia), dall’emarginazione (pessimi sono i risultati scolastici, anche se già rivela passione e talento per il disegno di animali) e dall’insofferenza verso il mondo che lo circonda – tuttavia, lui sempre ricorderà il Paese natale come la patria perduta, rappresentata in molti dipinti. A Gualtieri Antonio è “straniero in terra straniera”: non conosce nessuno, parla solo il tedesco, non sa dove potere mangiare e dormire; la stessa madre adottiva, che subito ne chiede il rimpatrio, scrive che “vive come un animale”: si rifugia nella golena del Po, dove lavora come “scariolante”. L’argilla nei pressi del fiume è il materiale con cui modella le sculture; verso la fine degli anni venti inizia a dipingere, incoraggiato e apprezzato da rari estimatori, tra i quali Marino Mazzacurati, ma spesso circondato da ostilità e derisione. Per anni, è costretto a barattare suoi dipinti per un piatto di minestra o per un rifugio in una stalla o in un fienile; lui tuttavia si considera un artista di valore, pur costretto a subire, tra il 1937 e il 1945, tre ricoveri all’Ospedale Psichiatrico San Lazzaro di Reggio Emilia. Cresce intanto l’interesse per la sua opera visionaria: nel 1955 si tiene la prima mostra personale a Gonzaga; nel 1961 un’esposizione a Roma, alla Galleria La Barcaccia, ne segna la consacrazione nazionale (“il caso Ligabue”), suscitando l’ammirazione e l’interesse di appassionati, critici e storici dell’arte, che certo non si affievoliscono dopo la morte, nel 1965.
A cinquantacinque anni dalla prima mostra romana, l’esposizione antologica nel Complesso del Vittoriano presenta oltre cento opere accuratamente selezionate (alcune mai esposte in precedenza) tra dipinti, sculture, disegni e incisioni, e conferma, al di là delle fuorvianti definizioni di naïf o di artista segnato dalla follia, il fascino di questo “espressionista tragico” di valore europeo, nella cui opera spira il vento del moderno.
Sandro Parmiggiani