C'è un paese che non c'è. Al centro di una valle nebbiosa, circondato da un bosco dai cui rami scheletrici penzolano cadaveri di impiccati, il paese - un nucleo isolato di case in rovina, una locanda, un bagno pubblico - vive una non-vita immota e immutabile, congelata in un'eterna ripetizione di gesti, riti, culti. L'inverno è lungo, l'estate corta, le gravidanze durano due anni: nemmeno i bambini vogliono nascere, nella valle della Verhovina. Nulla turba questa quiete che non è un letargo; è un corna: gli abitanti - il capo della brigata per il controllo delle acque, Anatol Korkodus; il giovane Adam, uscito dal penitenziario di Monor Gledin per aiutare il brigadiere nelle sue mansioni; la curatrice Nika Karanika, che sa resuscitare i morti; la sarta Aliwanka, che predice il futuro nei fazzoletti inzuppati di lacrime - aspettano; aspettano che in paese arrivi qualcuno, ma non arriva mai nessuno, e quei pochi che arrivano se ne vanno, o scompaiono, o si gettano nelle acque della sorgente numero due, dove tutto ciò che cade «diventa blu, e dopo un po' di tempo vi si deposita sopra una specie di cristallo blu in aghi appuntiti». Anche gli uccelli sono spariti: sono volati via, un giorno, e non sono più tornati. Ultimo romanzo di Ádám Bodor, «l'autore più spietato, più crudele della letteratura contemporanea est-europea» nelle parole di László Krasznahorkai, "Boscomatto" è una successione di tavole bruegeliane in cui le situazioni si ripetono in modo ossessivo, come se i personaggi - lunga teoria di figure sole'e disperate, accomunate da un desiderio perennemente frustrato di contatto umano - fossero condannati a replicare senza sosta i gesti di una farsa insensata. Del resto, nella valle della Verhovina non esistono passato, presente e futuro; il filo del tempo è un cappio e ogni vita, congelata nel ghiaccio, è un fossile imperfetto che ci arriva dalla fine dei giorni, alla cui sorte siamo tutti fraterni.