Nei racconti del Vangelo, Matteo è un “pubblicano”, uno che riscuote le tasse per conto dei romani, un infame che collabora con l’oppressore. Eppure Gesù lo vede, lo chiama. E lui lascia tutto e lo segue. Sarà apostolo ed evangelista. Sedici secoli dopo, a Roma, chiedono a un pittore nemmeno trentenne, noto come il Caravaggio, di dipingere quella chiamata per la chiesa di S. Luigi dei Francesi. La committenza è esigente. Vuole fedeltà al testo evangelico, ma anche capacità di renderlo attuale, come il Concilio di Trento ha prescritto agli artisti. La risposta del Caravaggio è geniale. Fa irrompere il Cristo in un vicolo della Roma del 1600, nella stamberga di un usuraio. E lì, tra quegli uomini, giovani e maturi, affaccendati attorno a un tavolo su cui si contano monete, chi è il Matteo che Gesù chiama? È l’uomo d’età, ben vestito, che sta al centro e si volta con sguardo incuriosito e turbato? O è invece il giovane a capo del tavolo, incurvato sui soldi, il più lontano di tutti, ma sulle cui spalle si posa la luce calda e accogliente della Grazia? La scelta del Caravaggio fu netta, rivoluzionaria. E decretò l'immediato e travolgente successo del suo dipinto, tra i cuori semplici del popolo, ma ancora più tra i dotti. Il “vero” Matteo è colto nell’attimo del dramma interiore, della scelta tra le due vie del male e del bene, della soglia decisiva su cui anche lo spettatore riluttante è trascinato invincibilmente, alla vista di questo capolavoro della pittura di ogni tempo, ancora oggi straordinariamente attuale. Le collezioni di opere d’arte che hanno mantenuto la loro integrità grazie a tale istituto, oltre ad aver perpetuato fino a noi il nome e le ambizioni delle famiglie a cui sono legate, ci hanno soprattutto consegnato – salvandole da perdite e dispersioni – le loro opere che non sono più soltanto proprietà di una sola famiglia, ma fanno parte di un patrimonio ormai condiviso da tutti e sul quale pesa l’onere e l’impegno della sua corretta tutela per il futuro.