Furono molti i cosiddetti antifascisti che, durante il Ventennio, bussarono alla porta del dittatore per i più svariati motivi. Quasi tutti per incensare il Duce, generalmente in cambio di prebende e di favori, salvo poi brigare per cancellare le tracce delle loro compromissioni. Ci sono i salamelecchi di Arturo Labriola, l'inconfessabile amicizia di Nenni con Mussolini, c'è la vicenda di Norberto Bobbio e della sua supplica al Duce scritta per rivendicare la sua "coscienza di fascista". Perfino Luigi Einaudi, futuro Presidente della Repubblica, scrive a Mussolini per impetrare aiuto, nel tentativo di rimediare alle intemperanze antifasciste dei figli. E ci sono anche Missiroli, Ricciardetto, Vittorini, Sibilla Aleramo e molti altri. Su tutti, però, si staglia Alberto Moravia, che giunse a rinnegare la memoria dei suoi cugini, i fratelli Rosselli, uccisi dai fascisti in Francia. Fare i conti con il passato degli italiani è maledettamente complicato, tanto i vizi nazionali paiono ridondanti nella loro cartacea e tonitruante magniloquenza. Ma setacciare gli archivi fa scoprire verità scomode che i lettori devono sapere.