Rovine eroiche, città morte o agonizzanti, vita in mezzo ai detriti e distruzioni; e poi i relitti della storia come strumenti di legittimazione o di rafforzamento, difesa di identità e veicolo di memorie culturali; e ancora il timido affiorare di un 'sentimento delle rovine': il viaggio alla (ri)scoperta dell'‘antico' per gli Antichi può cominciare.
Secondo la testimonianza dell'archeologia nel mondo greco e romano (Atene, Troia, Roma e non solo) tanti erano i paesaggi pieni di resti di epoche precedenti con cui le popolazioni convivevano.
Massimiliano Papini si interroga sul valore e il senso che potevano avere le rovine o i monumenti antichi già nell'antichità. Ci accompagna in un viaggio indietro nel tempo e indaga su momenti e luoghi in cui le rovine hanno avuto un significato particolare. Ad esempio, tra l'VIII e il VII secolo a.C., quella che conosciamo come l'‘età di Omero', i Greci instaurarono un rapporto di distanza e, al contempo, di familiarità con i monumenti funerari dell'Età del Bronzo da tempo abbandonati e riletti in chiave eroica. Nell'estate del 479 a.C. i Persiani distrussero Atene; tornati a casa, gli Ateniesi trovarono uno scenario da incubo, e si tramanda un loro giuramento sul campo della battaglia finale, a Platea, che prevedeva di non ricostruire i templi per lasciarli a reminiscenza delle distruzioni. Quanto stretto potesse essere il rapporto con i luoghi del passato storico ed eroico è poi mostrato da Troia, Urbs capta per eccellenza, che comprendeva in sé due città, la reale e l'immaginaria. Infine, anche i Romani, benché febbrili ricostruttori, dovevano comunque confrontarsi con la visione (da loro assai poco gradita) di monumenti diroccati e di città morte, ai quali talvolta sapevano però attribuire anche una funzione positiva, almeno in chiave consolatoria: al cospetto dei resti urbani era infatti vacuo dolersi per la morte di un caro individuo, e più giovava rendersi conto della piccolezza di sé e del proprio lutto privato.