Il Concilio Vaticano II è stato «la grande grazia di cui la Chiesa ha beneficiato nel XX secolo: in esso ci è offerta una sicura bussola per orientarci nel cammino del secolo che si apre». Così affermava all’alba del nuovo millennio Giovanni Paolo II.
Con il Concilio infatti la Chiesa cattolica aveva assunto nuovi orientamenti per proseguire la sua missione di sempre in un contesto storico fortemente mutato. Come quel «padrone di casa che attinge dal suo tesoro cose nuove e cose antiche», i padri conciliari, nella loro laboriosa opera di aggiornamento, si riferirono alla grande Tradizione ecclesiale, soprattutto dei primi secoli, ponendo in primo piano aspetti che le circostanze storiche avevano messo in disparte. L’evento conciliare generò un clima di grande entusiasmo e di slancio, una sorta di «nuova Pentecoste», in forza della quale la Chiesa rinnovava la sua fedeltà a Dio e pensava di poter parlare al mondo facendosi capire, dopo un lungo periodo di allontanamento.
Come peraltro successe per molti concili, la recezione del Vaticano II incontrò tuttavia gravi difficoltà, che ne resero problematica l’assimilazione nel concreto della vita ecclesiale. Anzitutto il ’68, con il suo portato di sovvertimento dell’ethos tradizionale, delle istituzioni e della politica, segnò la crisi della modernità avviando il processo della destrutturazione sociale postmoderna. Ma anche la Chiesa stessa sperimentò profondi travagli, per la fatica che inevitabilmente comportano i passaggi di crescita, con la formazione di nuove pratiche, mentalità e paradigmi di pensiero, ma soprattutto per i conflitti, talvolta laceranti, tra le diverse interpretazioni del Concilio. Alcune, convergendo da prospettive opposte, identificavano nel Vaticano II una rottura nei confronti della tradizione: da un lato il movimento scismatico di mons. Lefebvre, che condannava nel Concilio un’eresia di matrice liberale e neo-modernista; dall’altro le interpretazioni che salutavano nel Vaticano II un nuovo inizio nella storia della Chiesa, riferendosi, oltre i testi conciliari stessi, a uno ‘spirito’ che avrebbe autorizzato cambiamenti radicali negli assetti della Chiesa.
Quest’opera, rigorosa e documentata, in continuità con «l’ermeneutica della riforma» promossa da Benedetto XVI, mostra come, nonostante la congiuntura storica sfavorevole, importanti acquisizioni sono state compiute nella quotidianità del cammino postconciliare: basti pensare, solo per fare alcuni esempi, alla riforma liturgica, al primato della parola di Dio, alla corresponsabilità dei laici e all’apertura mondiale della cattolicità. Ma, a quarant’anni dal Concilio – afferma Routhier – non abbiamo esaurito la sua linfa né consentito a tutti i suoi fermenti di lavorare il corpo ecclesiale e di rinnovarlo in profondità. «È suonata l’ora della seconda scelta: l’ora di un bilancio, ma anche, dopo un momento di perplessità, di fluttuazioni e di grandi interrogativi, l’ora dell’approfondimento, l’ora del nuovo slancio sapendo che non si acquisisce nulla senza spendervi tempo e perseveranza, e senza acconsentire a un impegno nella durata e nella quotidianità».
Gilles Routhier (1953) è professore di Ecclesiologia e Teologia pratica all’Université Laval (Québec) e all’Institut Catholique di Parigi. Ha conseguito un dottorato in teologia, antropologia religiosa e storia delle religioni alla Sorbona di Parigi. Si occupa in particolare del Concilio Vaticano II, della sua storia, recezione ed ermeneutica, nonché della sua influenza sull’evoluzione del cattolicesimo post-conciliare.