"Le cose della guerra", che la Fondazione Valla pubblica con l'ampia introduzione e il commento di Andrea Giardina, è stato scritto nel quarto secolo dopo Cristo, probabilmente sotto l'imperatore Costanzo II. Non sappiamo chi l'abbia composto: certo qualcuno che si era ritirato a vita privata dopo significative esperienze nell'amministrazione civile; e, come un dilettante stravagante e geniale, sollecito del bene della patria, voleva soccorrere coi suoi consigli l'imperatore e l'impero. Il testo, specie secondo Santo Mazzarino, ha un'importanza capitale per lo studio dell'economia tardo-antica. L'anonimo parla delle largizioni smodate dello Stato, del crescente depauperamento delle classi inferiori, della disonestà dei governatori, della contraffazione della moneta aurea, della necessità di una riforma monetaria e della riduzione della ferma militare. Il lettore non specialista rimarrà affascinato soprattutto dalle descrizioni di macchine belliche (a metà tra reali e fantastiche), che hanno avuto un ruolo di primo piano nella storia del pensiero tecnologico. La liburna: il carro falcato: la ballista a quattro ruote: la ballista fulminale: il ticodifro: il ponte di otri: lo scudo chiodato: la plumbata tribolata: il toracomaco - vengono descritti con puntiglio realistico e, insieme, con una specie di incanto fantastico, come se fossero ircocervi o ippogrifi. Le riproduzioni di alcune bellissime illustrazioni appartenenti a un codice del quindicesimo secolo impreziosiscono il volume.
Indice - Sommario
Introduzione
Nota alle illustrazioni
Abbreviazioni Bibliografiche
TESTO E TRADUZIONE
Sigla
Le cose della guerra
COMMENTO
Prefazione / Introduzione
Dall'introduzione
I. Da Voltaire al tardo impero
Il 26 febbraio del 1769 Voltaire scrisse a Caterina II, imperatrice di Russia, e le propose di utilizzare, nell'imminente guerra contro i Turchi, un temibile strumento di morte, che avrebbe sorpreso e atterrito gli avversari: "Non basta fare una guerra vittoriosa contro questi barbari e poi concluderla con una pace qualsiasi; non basta umiliarli, bisogna distruggerli. Un uomo dalle idee nuove mi diceva, qualche giorno fa, che nelle vaste pianure dove le vostre truppe si apprestano a marciare, si potrebbe fare uso facilmente, e con successo, di antichi carri da guerra, modificati. Egli immaginava carri a due timoni, dotati, alla loro estremità, di un largo frontale destinato a proteggere il pettorale dei cavalli. Ciascuno di questi carri, molto leggero, sarebbe guidato da due fucilieri, situati all'interno, su un soppalco. I carri dovrebbero precedere la cavalleria. Lo spettacolo riempirebbe i Turchi di stupore, e quello che stupisce soggioga. Ciò che non servirebbe a nulla in un paese frastagliato o montagnoso, potrebbe avere effetti sorprendenti in pianura, almeno per una sola campagna. Il tentativo costerebbe ben poco, ma potrebbe risultare molto utile, senza controindicazioni. Ecco quello che mi diceva il mio sognatore, e io lo ripeto all'eroina del nostro secolo. Ella giudicherà con un colpo d'occhio. Potrà riderne, ma perdonerà allo zelo ".
L'"uomo dalle idee nuove", il "sognatore", non era altri che lo stesso Voltaire. E non era la prima volta che il filosofo proponeva a un sovrano l'idea di riesumare, in forma aggiornata, uno dei più antichi e tenaci miti dei campi di battaglia: il carro falcato, un veicolo munito di lame taglienti, destinate a distruggere la fanteria nemica. Lo aveva già fatto durante la guerra dei sette anni, suggerendo al re di Francia Luigi XV, per il tramite del duca di Richelieu, di adoperare contro Federico II quella macchina "molto più affidabile, molto più temibile" delle armi messe in campo dai Prussiani. Il marchese di Florian si era entusiasmato dell'idea (per questo Voltaire lo chiamerà con l'appellativo di "sovrintendente ai carri di Ciro"), ne aveva chiesto un modellino e lo aveva presentato al ministro d'Argenson. Voltaire si mostrava sicuro del successo della sua scoperta: appena seicento uomini e seicento cavalli, in pianura, avrebbero annientato un esercito di diecimila uomini, mentre soltanto cinquanta cannoni dal tiro preciso avrebbero potuto neutralizzare quella "petite drôlerie". Unico inconveniente: i carri falcati potevano essere usati una sola volta, perché dopo l'effetto sorpresa non erano più efficaci. Uomini intorpiditi dalla routine - egli aggiungeva - non avrebbero potuto apprezzare quella novità. Ci voleva gente d'immaginazione e di genio. E confidava: "Ammetto di essere ridicolo, ma insomma, se un monaco con del carbone, dello zolfo e del salnitro ha cambiato l'arte della guerra in tutto questo sporco mondo, perché mai un imbrattacarte come me non potrebbe rendere qualche piccolo servizio incognito?". Tuttavia, con il passare del tempo, egli si rese conto di non essere Berthold Schwarz, l'inventore" della polvere da sparo, e che le possibilità di veder realizzato il proprio progetto erano quanto mai remote ("Nessun generale oserà mai servirsene per paura del ridicolo in caso d'insuccesso. Ci vorrebbe un uomo risoluto... che fosse un po' macchinista e che amasse la storia antica..."); ma non rinunciò - soprattutto dopo la bella vittoria di Federico II a Rossbach - al piacere della recriminazione: "Ci ha battuto indegnamente. Sarebbe stato meglio... far correre dei carri d'Assiria in aperta campagna, piuttosto che farsi accoppare tra due colline ed essere costretti a fuggire vergognosamente davanti a sei battaglioni prussiani, senza aver combattuto".
Con l'imperatrice di Russia Voltaire fu più insistente: quasi petulante. Caterina gli rispose una prima volta nell'aprile dello stesso anno 1769: "Nulla prova di più, signore, la sincerità dei vostri sentimenti nei miei confronti, di quanto mi dite su quei carri di nuova invenzione. Ma i nostri uomini di guerra rassomigliano a quelli di tutti gli altri paesi: le novità non sperimentate appaiono loro discutibili". Era un modo garbato e deciso di chiudere il discorso, ma il 27 maggio Voltaire ritornò sull'argomento con nuovi particolari: i carri, in numero di appena mezza dozzina, avrebbero dovuto precedere un corpo di cavalleria o di fanteria e sarebbero stati sicuramente efficaci, a meno che i giannizzeri di Mustafà non avessero fatto uso di cavalli di Frisia. Ancor più insistente fu in una lettera del 10 aprile dell'anno successivo: "Ho buoni motivi per credere che la grande armata di Vostra Maestà imperiale si troverà nelle pianure di Adrianopoli nel mese di giugno. Vi supplico di perdonarmi se oso insistere ancora sui carri di Tomiride. Gli esemplari che metto ai vostri piedi sono di concezione completamente diversa da quelli dell'Antichità. Non appartengo affatto al mestiere degli assassini; ma proprio ieri due eccellenti omicidi tedeschi mi assicuravano che l'effetto di questi carri sarebbe sicuro in un primo scontro, e che sarebbe impossibile a un battaglione o a uno squadrone resistere all'impetuosità e alla novità di un simile attacco. I Romani si facevano beffe dei carri da guerra, e avevano ragione. Essi sono soltanto uno scherzo, una volta che vi si è fatta l'abitudine. Ma la loro prima apparizione deve certamente spaventare, e scompigliare tutto".