Amore, follia, sacrificio. E poesia. Per Alda Merini c'è una relazione quasi necessaria tra quel "grande, inconfessabile languore amoroso" che è la follia, e la scrittura, vissuta come esperienza fisica prima ancora che come vocazione letteraria. "La poesia", scrive, "non è solo una missione; è anche e soprattutto un lavoro manuale" che attinge "alle forze della natura". In questo processo è il corpo il vero protagonista. Un corpo che ha rinunciato, con voluttà e stupore, alla guida rassicurante della ragione per smarrirsi nei labirinti tetri ma affascinanti della pazzia. Per perdersi e scoprire altre, più profonde verità. E soprattutto per poter amare. Questo libro, scabroso e drammatico, "scritto selvaggiamente", documenta gli anni più bui e insieme luminosi della poetessa milanese, gli anni dell'amore maledetto per un uomo "austero, silenzioso e temibile", gli anni dei manicomi e dei centri di riabilitazione mentale, in cui invano i medici hanno tentato di far tacere la poesia. Invece, pare suggerirci Alda Merini, contro tutti i princìpi razionali e le manie di benessere psicofisico, è "sano", a volte, accettare il proprio disagio interiore, lasciare che spiragli di sregolatezza si insinuino nella nostra vita, dando voce a emozioni e sentimenti che diversamente rimarrebbero muti per sempre. Un libro sapiente e visionario, in cui la struggente prosa lirica della poetessa riesce ad amplificare e sublimare la disperazione, rendendoci preziosi testimoni, quasi complici, del suo delirio amoroso...