Poema di viaggi e d'avventure, di guerre e d'amore; celebrazione del regime augusteo e riaffermazione del mos maiorum come ideale modello di virtù civili e religiose, "l'Eneide" costituisce il testo fondamentale della civiltà classica dell'Occidente. Virgilio si prefigge l'imitazione di Omero e l'esaltazione di Angusto a partire dai leggendari antenati troiani e latini: un intreccio di motivi perfettamente fusi nel tessuto poetico scandito dall'esametro epico, flessibilissimo e ordinato. Un Omero capovolto: il peregrinare di Enea non è una ricerca della via del ritorno ma una navigazione verso l'ignoto; i combattimenti non sfociano nella distruzione di una città, ma nella fondazione della nuova capitale, Lavinio, da cui Alba Longa e la gloria di Roma. Il mondo augusteo è visto da un punto d'osservazione infinitamente lontano nel tempo: squarci profetici inseriscono nella trama narrativa schegge del presente in cui vive il poeta, così come certi flash-back riallacciano l'età repubblicana al passato mitico dell'epopea di Troia.
Con questo sesto volume, si conclude l'edizione "dell'Eneide" pubblicata per iniziativa della Fondazione Valla, col commento di Ettore Paratore e nella traduzione di Luca Canali. I libri XI e XII sono libri di guerra e di morte. Mai, come nella descrizione dello scontro di cavalieri e cavalli intorno a Camilla, Virgilio aveva rivelato la sua ferocia intellettuale, una ferocia quale non si trova mai in Omero: che orgia di sangue, che demoniaca torsione di membra, che meraviglioso manierismo michelangiolesco. Ma la morte lascia in noi un segno più profondo delle battaglie. Ecco il corpo di Pallante, disteso su un graticcio di corbezzoli e rami di quercia, simile a una viola o a un giacinto che, spiccato dalla mano di una fanciulla, non smarrisce la sua bellezza ma non è più nutrito dalla terra. Ecco i roghi dei cadaveri sulla spiaggia, i neri fuochi che nascondono il ciclo, i terribili ululati, il suolo che si bagna di lacrime. Ecco Camilla, incarnazione di tutto quanto vi può essere di selvaggio nella natura femminile, che muore: "a gradi si sciolse fredda da tutto il corpo e posò / il languido collo e il capo preso dalla morte". Ora che la fine incombe su di lui, Turno ci stringe il cuore. Avanza in silenzio, con lo sguardo immobile, le gote languenti e in volto un patetico pallore giovanile: la sua sicurezza si incrina: tutto gli sembra perduto. Guarda la città con follia mista a tormento e amore agitato dalla furia. Compie cinque giri di corsa, ripetendo i gesti di Ettore nell'Iliade. La sorella, la ninfa Giuturna, lo abbandona; una lugubre civetta lo atterrisce; e invano si sforza di scagliare, un macigno contro Enea: "E come in sogno, di notte, quando una languida quiete / grava sugli occhi, ci sembra di voler inutilmente intraprendere / avide corse, e durante il tentativo cadiamo sfiniti; / la lingua impotente, le forze consuete del corpo / svaniscono, e non escono voce o parole...". Non gli resta ormai che morire.
Indice - Sommario
TESTO E TRADUZIONE
Sigla
Libro undicesimo
Libro dodicesimo
COMMENTO
Abbreviazioni bibliografiche usate nel Commento
Libro undicesimo
Libro dodicesimo