I racconti di William Faulkner sono scaturiti dalla stessa materia dei grandi romanzi dell'autore. Vi ritroviamo così il microcosmo della Contea di Yoknapatawpha, trasfigurazione di quella di Lafayette, nel suo Mississippi, con quel particolare métissage prodotto da un secolo e mezzo di invasioni coloniali, immigrazioni e conflitti tra etnie, classi e generazioni: indiani Chickasaw e schiavi neri braccati come selvaggina, bianchi poveri e benestanti, tagliagole portuali e gente perbene, vigliacchi e altruisti capaci di occasionali eroismi, sopravvissuti della guerra civile e reduci della prima guerra mondiale. E vi ritroviamo, contiguo a questo brulichio di personaggi elevati ad archetipi, un paesaggio inconfondibile, dove la cieca tensione alla sopravvivenza pervade un susseguirsi di boschi e borghi, piantagioni e viottole sterrate, terre dissodate e foreste popolate di cervi, luoghi incendiati da meriggi accecanti o sfiorati da interminabili crepuscoli in cui si condensa una disillusione immedicabile. Prigionieri di un determinismo da cui non riesce a liberarli l'effimera euforia dei balli, del whisky, del gioco d'azzardo, dei combattimenti di galli, tutti sembrano abitati da pensieri imperscrutabili. Eppure proprio in questo agitarsi impotente Faulkner trova il segreto "del cuore umano e dei suoi dilemmi": un segreto esteso a tutto il mondo animato e inanimato, se persino delle vecchie finestre sfondate ricordano "occhi colpiti da cateratte".