Con questa biografia Luciano Canfora si libera da ogni operazione agiografica e indaga quel complesso personaggio che fu Concetto Marchesi, un grande intellettuale italiano, libertario e socialista. L’agiografia su Marchesi ha voluto fare di lui una sorta di sito geologico attraverso la cui stratigrafia ripercorrere l’intera vicenda del movimento socialistico italiano: dai fasci siciliani al PCI resistenziale e poi togliattiano. Marchesi, in altre parole, ha avuto due vite: quella vera di uomo di genio, con la sua grandezza, le sue debolezze, le sue zone d’ombra, il suo fiuto politico talora lungimirante, il suo caratteriale individualismo; e quella del mito postumo – alla cui costruzione, per certi versi, egli stesso non fu estraneo – creato dal ‘Partito’. Uomo complesso, nella sua lunga militanza in tempi di ferro e fuoco, si convinse della necessità di un forte potere personale come unica soluzione del problema politico. L’esperienza che segnò tutta la sua vita fu la resa e poi l’adesione della maggioranza degli Italiani al fascismo. Unico esponente dell’alta cultura italiana legato notoriamente al disciolto, ma mai domato, Partito comunista, Marchesi convisse infatti col fascismo nella difficile posizione dell’oppositore ‘dormiente’ e probabilmente entrista – e cioè, infiltrato nel partito fascista con l’obiettivo di modificarlo dall’interno. Intanto maturava in lui – antifascista comunista – l’opzione, verso cui si orientò anche Antonio Gramsci, per il «cesarismo progressivo», incarnato ai suoi occhi dal potere staliniano. Il continuo rifacimento della sua Letteratura latina è lo specchio di questo suo cammino politico. A sciogliere ogni suo dubbio valse la vicenda della riscossa della Russia contro l’invasione hitleriana. Con la caduta di Mussolini, ogni entrismo sembrava ormai da archiviare, ma così non fu. Per lui, Rettore a Padova sotto il tallone tedesco, ben presto ci furono la fuga e l’esilio. Dalla Svizzera, crocevia dei servizi segreti delle potenze in guerra, egli costituì il perno della rete che aiutava militarmente la lotta partigiana. Fu la sua stagione più esaltante, la «poesia della sua vita», come egli stesso scrisse. Alla prospettiva espressa nel suo celebre scritto Stalin liberatore, rimase ancorato fino al 1956, allorché, nella crisi generale del movimento comunista, si schierò con durezza contro gli apostati e i fuggiaschi. Ma intuì la crisi del sistema. E si decise a optare per il ritiro dalla vita politica: non poté praticarlo perché improvvisamente morì.