Il segretario italiano che assisteva Papa Giovanni Paolo II aveva commentato:
«È un vescovo noto in Italia», ottenendo l’affermazione del Papa: «È noto in tutto il mondo!»
Dopo i sempre più frequenti episodi di integralismo religioso, la querelle sui rapporti tra le confessioni religiose e la laicità è, a dispetto di ogni considerazione sulla secolarizzazione e la postmodernità, uno dei temi più affrontati dalla pubblicistica e dall’editoria occidentale, in America come in Europa.
Si discute sul valore in sé della religiosità, dei suoi positivi contributi alla società civile, sia in riferimento alla politica sia alla bioetica e ai cosiddetti valori morali del cittadino. D’altro canto non si dimenticano le difficoltà intrinseche al rapporto delle religioni con le società, con gli stati, con la coscienza individuale del cittadino.
È di indubbio interesse e curiosità che ne parli in Italia, in piena querelle fra “teodem”, “neocon” e “atei devoti”, monsignor Bettazzi, il più giovane vescovo italiano presente al Concilio Vaticano II e protagonista della maggiornaza conciliare “progressista”, coordinata dal cardinal Lercaro e da don Dossetti.
Autore della famosa “Lettera a Berlinguer”, con la quale auspicava a metà anni Settanta un rinnovato e fertile dialogo fra cattolici e laici, subito dopo la quale il Segretario del PCI proponeva pubblicamente il “compromesso storico”, fu più volte, e senza motivi, definito il “vescovo rosso”; spiegava come anche un “episcopo” (titolare della più alta dignità ecclesiale), sempre rispettoso della dottrina e della tradizione, alla luce dei testi e dello spirito del Vaticano II, non cessi di essere pienamente cittadino, e perciò necessariamente laico, privo di ogni tentazione di “imperialismo” ideologico.
Questo nell’Italia dei giorni nostri, in cui la vecchia “questione cattolica”, che si riteneva risolta da un pezzo, riemerge con tutte le sue contraddizioni e ambiguità.