"L'immagine infranta" descrive la parabola del moderno attraverso una fitta trama di rapporti tra romanzieri e poeti (da Cervantes a Celan), filosofi (da Vico a Benjamin), pittori e scultori (da Manet a Fontana, a Pollock). Il filo conduttore è la crisi del linguaggio figurale: il mondo non offre più un'immagine stabile di sé, né il "pensiero" sembra capace di creare nuove immagini per dare ordine al mondo. La profondità di questa crisi, che ha raggiunto la stessa origine dell'esistenza umana, quell'"iconologia della mente" che ha segnato il passaggio da natura a storia, è testimoniata dalle decisioni estreme di due tra gli artisti più significativi del nostro tempo, Pollock e Celan, che non esitarono a "ripetere", per stanchezza, e disperazione, il gesto dell'Empedocle holderliniano - già compiuto, in altra forma, da Nietzsche. Tramonto o nuova alba? "L'immagine infranta" termina con questa domanda, che è anche una speranza: e se la crisi del linguaggio immaginale fosse il prezzo necessario per aprirsi alla possibilità di un linguaggio più umile, ma insieme più largo e profondo? Il linguaggio del corpo e della natura, il linguaggio che non "immagina", che non "fa-segno", ma è la cosa stessa: l'"essere-accanto" di uomini e cose, tra "pietre ed erbe".