Editoriale
L'ATTENTATO DEL 7 GENNAIO A PARIGI
In una tarda mattinata di gennaio, nel cuore di Parigi, due uomini entrano nella redazione del giornale Charlie Hebdo con armi da guerra e uccidono 12 persone, ferendone altre 11. Si è levato subito dappertutto un grido di dolore davanti a quell’orrore: bisogna opporsi, criticare, denunciare questo tipo di azione inaccettabile e orrendo.
I raduni spontanei di quella stessa sera hanno testimoniato la forte emozione di fronte a una tale violenza. In tutte le grandi città di Francia le folle hanno dichiarato la loro opposizione a questi atti. In tutto il mondo, la gente si è radunata davanti alle ambasciate francesi. Da Washington a Mosca, le dichiarazioni dei capi politici di qualsiasi schieramento hanno mostrato la solidarietà di tutti in favore della difesa della libera espressione, garanzia della democrazia.
La Chiesa, da parte sua, ha preso chiaramente posizione. Papa Francesco ha più volte sottolineato i pericoli del fondamentalismo. All’inizio della Messa dell’8 gennaio a Santa Marta, celebrata per le vittime degli attentati, ha detto: «L’attentato di ieri a Parigi ci fa pensare a tanta crudeltà, crudeltà umana». Il giorno prima aveva già manifestato «la più ferma condanna per l’orribile attentato», ricevendo l’arcivescovo di Parigi, card. Vingt-Trois, al quale ha espresso «la sua profonda vicinanza alle persone ferite».
Il card. Parolin, Segretario di Stato, ha scritto all’arcivescovo di Parigi per trasmettergli le preghiere del Papa per tutte le famiglie in lutto. Scioccati per l’odioso attentato a Parigi, il card. Jean-Louis Tauran, presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, e quattro imam francesi in visita in Vaticano hanno pubblicato una dichiarazione congiunta per condannare la strage. In essa si invitano i «credenti a manifestare attraverso l’amicizia e la preghiera la propria solidarietà umana e spirituale verso le vittime e le loro famiglie». «Senza la libertà di espressione — si legge nella dichiarazione — il mondo è in pericolo». I responsabili religiosi, avvertono il card. Tauran e gli imam, sono «chiamati a promuovere sempre una cultura di pace e di speranza». Considerando «l’impatto dei mezzi di comunicazione, si invitano i loro responsabili a offrire una informazione rispettosa delle religioni, dei loro fedeli e delle loro pratiche, promuovendo così una cultura dell’incontro». Infine la dichiarazione ribadisce che «il dialogo interreligioso permane la sola via da percorrere insieme per dissipare i pregiudizi» (Dichiarazione del card. Tauran e di una delegazione di imam francesi, giovedì 8 gennaio 2015).
Tutte le autorità religiose, in particolare musulmane, hanno manifestato la loro ferma condanna di tali attentati. A Parigi, il giornale La Croix ha potuto parlare della «rivolta delle religioni davanti al terrorismo», perché i rappresentanti delle religioni erano riuniti all’Eliseo la sera di quel giorno drammatico per i consueti auguri al Presidente della Repubblica francese.
La stessa sera del 7 gennaio in tante capitali, ma soprattutto a Parigi in Place de la République, si sono radunati migliaia di cittadini per esprimere la loro condanna di tali violenze e la difesa della libertà di espressione.
Si è osservato un minuto di silenzio sia all’Assemblea Nazionale, sia davanti alla cattedrale di Notre Dame, ma anche all’Onu, al Parlamento di Strasburgo, in tutti mezzi di trasporto pubblico e in tutti gli stadi del Paese. Le luci della Torre Eiffel sono state spente alle 20,00 a Parigi. Il presidente della Repubblica, Hollande, ha proclamato un giorno di lutto nazionale.
L’emozione era immensa. Dappertutto si vedeva scritto je suis Charlie. Ogni francese si è sentito profondamente ferito e toccato da questi assassini, come se ne fosse stato vittima un membro della propria famiglia.
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Perché tanta emozione? Anzitutto per la barbarie del gesto, che va al di là di tutto ciò che si possa immaginare. Si presume che la Francia sia un territorio sicuro e pacifico. Nonostante questo, però, è stata colpita direttamente dal terrorismo. Ma c’è un altro aspetto: le vittime di questo atto — giornalisti conosciuti per la loro libertà, antimilitaristi, anarchici e molto antireligiosi (le loro caricature di Benedetto XVI erano feroci come quelle su Maometto) — erano una dimostrazione della libertà di stampa.
Il presidente del Consiglio italiano, Matteo Renzi, ha espresso all’ambasciatrice di Francia, Catherine Colonna, la solidarietà di tutti gli italiani davanti a una tale tragedia e ha concluso dicendo: «Siamo tutti francesi».
Come sono possibili tali atti nel XXI secolo? Bisogna analizzare questo tipo di violenza per meglio denunciarla e tentare di prevenirla.
In questa riflessione, occorre innanzitutto riconoscere da dove questa violenza non viene. Non vi è correlazione diretta con l’immigrazione musulmana. Del resto alcuni di coloro che sono partiti per fare il jihad in Siria sono francesi da generazioni, altri sono immigrati. Così coloro che si servono di questi eventi per promuovere campagne politiche contro l’immigrazione, non soltanto manifestano una mancanza di rispetto per il lutto delle famiglie, ma anche sbagliano completamente la loro analisi.
Questi attentati non sono legati in alcun modo alla pratica normale dell’islam: tutti i gruppi musulmani hanno chiaramente e fortemente denunciato questi estremismi, compresi quelli dei Paesi musulmani. Del resto essi ne sono le prime vittime collaterali.
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È dunque necessario ricercare le cause. Non basta individuare i colpevoli, ma si devono identificare i motivi che hanno portato a simili atti, per evitare che si ripetano. In tali eventi, diverse cause formano generalmente il contesto in cui un individuo passa all’azione. Nessuna di queste cause è realmente sufficiente, ma messe insieme, esse possono portare a tali violenze. Tre potrebbero essere i tipi di cause che si mescolano: fattori personali, situazioni nazionali e il contesto internazionale.
Da alcuni anni il contesto internazionale ha visto svilupparsi un estremismo violento che ha prodotto, tra gli altri, gli attentati dell’11 settembre 2001. Al Qaeda ha generato diversi gruppi, sotto forme diverse, sia l’Aqmi nel Sahara, Aqpa nello Yemen, Boko Haram in Nigeria, o il cosiddetto «Stato islamico» in Siria.
Questi diversi movimenti hanno tutti in comune il rifiuto dell’Occidente, del suo modo di vita, della sua democrazia, del consumismo, della sua maniera di concepire i rapporti uomo-donna e del suo modo di viverli. Soprattutto hanno sviluppato una ideologia omicida intorno a un islamismo radicale che vuole eliminare tutti i nemici della visione fondamentalista dell’islam. Questa ideologia si è diffusa nello Yemen, in Nigeria, in Siria, in Irak, e si è trasferita perfino in Occidente, per mezzo di individui, attraverso la mediazione di predicatori estremisti. Una tale diffusione, aiutata dalle reti di comunicazione sociale, può fornire idee a persone turbolente. Lo Stato islamico è particolarmente attivo nel reclutamento in Occidente.
Il contesto sociale francese potrebbe aver giocato un ruolo in questo caso, come in altri, in particolare con Mohamed Reza, che ha ucciso 7 persone a Tolosa. Un miscuglio di problemi, di disoccupazione, di emarginazione, di carcere e di vuoto religioso può condurre individui molto fragili a un gesto estremo. Il contesto di una laicità tipicamente francese, che priva lo spazio pubblico di ogni dimensione religiosa, non aiuta a integrare i problemi spirituali degli individui.
Questi fatti esteriori, però, non sono sufficienti a spiegare il tutto. Le storie familiari e personali, l’assenza o l’incapacità educativa dei genitori, il tempo passato nelle carceri con effetti spesso devastanti possono condurre alcune personalità fragili o insicure ad attaccarsi a ideologie estreme e a lasciarsi influenzare da amici già estremisti. Come si può spiegare che circa 3.000 occidentali siano andati in Siria per fare il jihad? Molti di essi sono francesi.
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L’operazione omicida contro Charlie Hebdo rivela in modo drammatico la presenza di nemici della democrazia persino all’interno di questa stessa democrazia. Alcuni lupi solitari, legati a gruppi organizzati a livello internazionale, formati alla violenza più crudele e «dormienti» per anni nel modo più banale in pieno Occidente, si risvegliano per passare all’azione. Essi costituiscono una minaccia permanente e onnipresente. Per opporvisi, la tentazione potrebbe essere quella di trasformare le nostre democrazie in società poliziesche, nelle quali sarebbe generalizzato il sospetto, specialmente nei riguardi di tutti gli immigrati e di tutti i musulmani. La soluzione non va in questa direzione, ma consiste in una maggiore attenzione all’educazione nei quartieri difficili, in un sostegno alle famiglie più fragili, all’organizzazione delle zone urbane periferiche. Questa azione pubblica a lungo termine è la migliore prevenzione. È in gioco la responsabilità degli Stati.
Le grandi manifestazioni dell’11 gennaio a Parigi e in tutta la Francia, come pure in tutto il mondo, hanno dimostrato un accordo fondamentale di tutto il Paese e di tutta l’Europa sui valori della libertà. Le autorità politiche hanno preso l’iniziativa di una forte affermazione e difesa della democrazia. La popolazione ha partecipato in massa, per manifestare la propria solidarietà alle vittime e il suo rifiuto di ogni violenza. Una tale manifestazione non c’era mai stata in Francia. Colpendo i valori del vivere insieme, questi atti di terrorismo hanno provocato una reazione sociale, umana e politica, della più grande intensità. Le folle volevano dire che la democrazia è essenziale per tutti, è viva e deve essere difesa.
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Attualmente uno dei rischi peggiori è di far passare l’idea che, in fondo, questo atto di terrorismo è colpa delle religioni, e che esse impediscono la creazione di un mondo pacifico. Mentre è vero esattamente il contrario: le religioni hanno una funzione etica e spirituale importante nella società civile. Bisogna semmai combattere la loro strumentalizzazione o la loro banalizzazione.
Uno degli obiettivi principali di questi attacchi è quello di far credere che siamo in piena guerra religiosa islamica, che provoca una guerra religiosa cristiana. Non si deve cadere in questo tranello, facendo il gioco dei terroristi. La strada resta quella indicata da Papa Francesco, che giustamente ha parlato di «orribile attentato» e di «crudeltà umana», senza però dare enfasi religiose.
E occorre anche ricordare Benedetto XVI, il quale, nel suo incontro a Colonia (20 agosto 2005) con i rappresentanti di alcune comunità musulmane, aveva detto: «Non possiamo cedere alla paura, né al pessimismo. Dobbiamo piuttosto coltivare l’ottimismo e la speranza. Il dialogo interreligioso e interculturale fra cristiani e musulmani non può ridursi a una scelta stagionale. Esso è infatti una necessità vitale, da cui dipende in gran parte il nostro futuro».
Papa Francesco, nel discorso del 12 gennaio 2015 al Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede, ha affermato: «A una dimensione personale del rifiuto, si associa così inevitabilmente una dimensione sociale, una cultura che rigetta l’altro, recide i legami più intimi e veri, finendo per sciogliere e disgregare tutta quanta la società e per generare violenza e morte. Ne abbiamo una triste eco in numerosi fatti della cronaca quotidiana, non ultima la tragica strage avvenuta a Parigi alcuni giorni fa. Gli altri “non sono più percepiti come esseri di pari dignità, come fratelli e sorelle in umanità, ma vengono visti come oggetti” (Messaggio per la XLVIII Giornata Mondiale della Pace, 8 dicembre 2014, 4). E l’essere umano da libero diventa schiavo, ora delle mode, ora del potere, ora del denaro, talvolta perfino di forme fuorviate di religione. Sono i pericoli che ho inteso richiamare nel Messaggio per la recente Giornata Mondiale della Pace, dedicato al problema delle molteplici schiavitù moderne. Esse nascono da un cuore corrotto, incapace di vedere e operare il bene, di perseguire la pace».
Il Papa ha aggiunto: «Tale fenomeno è conseguenza della cultura dello scarto applicata a Dio. Il fondamentalismo religioso, infatti, prima ancora di scartare gli esseri umani perpetrando orrendi massacri, rifiuta Dio stesso, relegandolo a un mero pretesto ideologico».
In tale contesto, è importante la collaborazione fra tutte le religioni, sia sul campo sia nel dialogo tra loro e con i poteri pubblici. Le istanze che già esistono possono essere assistite nel loro lavoro, in modo da evitare derive della cui pericolosità ci si accorge troppo tardi. Il dialogo interreligioso in questo caso è centrale per poter orientare le nostre società verso lo scambio e non verso lo scontro o il sospetto.
La Civiltà Cattolica
© Civiltà Cattolica pag.105-110
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