In guerra non «spari garofani. Spari pallottole, bombe, e uccidi innocenti». E anche in tempo di pace la guerra è sempre in agguato, in ogni sua forma. L'odio che Oriana Fallaci prova nei confronti della guerra è nato molto presto, quando era bambina e ha imparato a correre sotto i bombardamenti del secondo conflitto mondiale. Lei, che dalla prima linea ha raccontato carneficine ed eccidi, non si è mai arresa alla logica di «fracassare e uccidere per ritrovare dignità», a cominciare da quella che doveva essere una corrispondenza di pace e si è trasformata invece in una delle sue prime corrispondenze di guerra: Oriana voleva entrare a Budapest e descrivere la rivolta del 1956, ma i carri armati sovietici l'hanno fermata al confine. Era la fine di un sogno. Passano poco più di dieci anni e un altro sforzo fallisce, quello di «mettere insieme le razze, ricavarne un popolo unito». Questa volta è Detroit che brucia per le rivolte razziali, come bruciano molte altre città degli Stati Uniti. Oriana Fallaci vuole capire, la sua coscienza è tormentata dal dubbio. È per questo che parte per il Vietnam, che incontra i fedayn in lotta contro gli israeliani, che incide con la sua penna senza risparmiare nessuno, nemmeno gli ipocriti generali di un conflitto dimenticato, come quello tra India e Pakistan nel 1971. Vent'anni più tardi, alla prima guerra del Golfo, mentre i pozzi petroliferi sono in fiamme, riconosce il primo round di una crociata destinata a dividere due sistemi di vita, due civiltà. Con la sua nota veemenza rifiuta l'arrendevolezza dell'Occidente, e in una pagina inedita qui pubblicata per la prima volta tuona: «Io non voglio morire neanche da morta». Ogni giorno per lei è quello giusto per combattere, qualche volta arrendendosi, come nell'attimo in cui l'amore per Alekos Panagulis la colpisce come un proiettile che le si conficca nel cuore.