Le Questioni Disputate sono il frutto delle lezioni universitarie di san Tommaso, costruite con il metodo delle obiezioni o delle osservazioni pro e contra. Con esse gli studenti sollevavano la oggettiva difficoltà di un tema. A questi rispondeva un assistente citando una fonte autorevole. Quindi il Maestro chiudeva la questione con sentenza, determinando la soluzione e alla luce di essa scioglieva le obiezioni prima sollevate. Sono l’esempio più brillante dell’arte di insegnare.
A giudizio del grande medievista Martin Grabmann, le Quaestiones disputatae «sono, dal punto di vista scientifico, l’opera più profonda e fondamentale che san Tommaso abbia scritto». In effetti si tratta di un modo molto ricco e critico di dettagliare una tematica profonda. La stessa vivacità dell’azione disputatoria, di per se stessa tesa più alla ripulitura delle idee in gioco che non alla distruzione dell’avversario, rappresenta un vero esercizio di filosofia e di teologia. Di fatto, poi, storicamente sappiamo che queste dispute erano veramente dei campi di battaglia. E allora avevano più il sapore del dibattito che non della disputa: dibattere vuol dire calpestarsi con violenza, mentre disputare vuol dire pulire con intensità.
Il sillogizzare dialetticamente pone le basi per una metodologia speculativa che sappia efficacemente integrare diverse posizioni. E la quaestio è effettivamente il modo più appropriato per entrare nel cuore delle diverse posizioni filosofiche e teologiche, così da saper esaminare ogni cosa e tenere ciò che è buono, come recita il celebre invito paolino (1 Tess 5,21). Nella quaestio disputata, san Tommaso dà prova della sua abilità dialettica, così come nella Summa dà prova della sua grande sistematicità.
L’abilità dialettica è anzitutto nel confronto, perché la verità si decanta con rigore dal cimento delle diverse opinioni: «Ad sciendum veritatem multum valet videre rationes contrariarum opinionum (In I De caelo et mundo l. 22), per conoscere la verità è assai importante considerare le ragioni delle opinioni contrastanti. La verità teoretica, infatti, esige uno statuto di incontrovertibilità, cioè di esclusione di una alternativa plausibile: «De ratione scientiae est quod id quod scitur existimetur esse impossibile aliter se habere» (S. Th. II-II, 1, 5, ad 4), appartiene alla natura della scienza il ritenere che ciò che si sa non possa essere altrimenti da come è. Il che implica, almeno tendenzialmente, la negazione della propria negazione: «Nullo enim modo melius quam contradicentibus resistendo aperitur veritas et falsitas confutatur» (De perfectione vitae spiritualis c. 26).
Ma san Tommaso riconosce anche un aspetto più positivo nel confronto con posizioni dottrinali dialetticamente contrastanti: «Nulla falsa doctrina est quae vera falsis non admisceat», (S. Th. I-II, 102, 5, ad 4), non si dà una dottrina falsa che non mescoli il vero col falso.
Questa apertura per così dire dialogica della mentalità realista non è però fine a se stessa; il termine di riferimento ultimo del dialogo rimane sempre la verità: «Non enim pertinet ad perfectionem intellectus mei quid tu velis vel quid tu intelligas cognoscere, sed solum quid rei veritas habeat» (S. Th., I, 107, 2), non ha alcuna rilevanza per la perfezione del mio intelletto sapere che cosa tu vuoi o che cosa intendi, ma solo quale sia la reale verità.
E questo è dovuto alla particolare fisionomia del sapere filosofico che accompagna sempre il modo di procedere di san Tommaso: «Studium philosophiae non est ad hoc quod sciatur quid homines senserint, sed qualiter se habeat veritas rerum» (In I De caelo et mundo l. 22), lo studio della filosofia non è fatto per sapere quale sia stata l’opinione degli uomini, quanto piuttosto per sapere quale sia la verità delle cose; ciò che si ha di mira è sempre la verità delle cose e non le opinioni al riguardo, o l’autorevolezza umana di chi la propone.
Nell’immagine: Miniatura del XIII, tratta dal Codice Corale n. 26, Biblioteca del Convento Patriarcale di Bologna. Riproduce san Tommaso mentre insegna dalla cattedra.