Un ragazzino di dieci anni, insieme al fratello maggiore, intraprende nel maggio 1938 un viaggio che da Amburgo, passando per l’Italia, lo porterà in un collegio sperduto dell’Alta Savoia. I due fratelli vivranno da soli, senza genitori, «in esilio» da una guerra che minacciosa si stringe attorno a loro. Una guerra che il piccolo Jürgen-Arthur, il quale non sa nulla (non sa nemmeno di essere ebreo), tenta di spiegare a modo suo: si convince di avere una colpa, una di quelle colpe che agli occhi dei bambini sono indicibili e imperdonabili. Quel bambino è lo stesso Goldschmidt, il grande scrittore tedesco che in questa narrazione autobiografica ripercorre gli anni del passaggio dall’infanzia all’adolescenza; anni difficili e delicati, in cui l’acuta sensibilità che li caratterizza è intensificata e portata a un punto estremo di tensione dagli eventi bellici, che si insinuano anche all’interno del collegio francese, inquinandone il microcosmo in apparenza sereno. Il giovane, infatti, ritrovatosi solo, senza neanche la compagnia del fratello, sarà costretto a subire le angherie e le sevizie della Direttrice e dei compagni, diventando la vittima preferita delle loro prepotenze. Ma nel momento stesso in cui il dolore scaturisce ed esplode nel corpo torturato e martoriato, Jürgen-Arthur scopre il potere misterioso e sorprendente del piacere che proprio nel corpo dimora. Il cuore del romanzo è infatti il corpo, percepito come rifugio ma anche, specie nelle punizioni più dure, come un bastione che non può essere soggiogato né distrutto, una linea di fuga. Si creano così sottili e complesse dinamiche psicologiche, indagate e messe a nudo con abilità ed estrema lucidità da una scrittura che non esita a setacciare i percorsi più oscuri della mente. Non a caso Goldschmidt per questo romanzo si affida al tedesco, dopo aver scritto sempre in francese: decide di tornare alla lingua madre, quella che avverte come lingua del trauma, della separazione, della perdita, del dolore; e insieme lingua del corpo e della salvezza: asciutta e spietata, ma capace di toccare inaspettate vette liriche. «Non esiste un altro libro che gli sia paragonabile nella storia meravigliosamente lunga dei libri», scrive Peter Handke nella sua Prefazione. L’unicità del libro è tutt’uno con i frequenti scarti narrativi che lo percorrono, con le improvvise impennate della fantasia che permettono a Jürgen-Arthur, in un continuo trascolorare e trasformarsi delle immagini, di aprire squarci fulminei nel dolore e scoprire la libertà e il piacere della natura, le grandi montagne alpine e i fitti boschi che le ricoprono, e insieme scoprire per la prima volta se stesso, allargando lo sguardo per abbracciare una terra respirata e vissuta «come se ancora fosse il primo giorno del mondo».