Ricondurre alla ragione il caos del mondo, con tutto ciò che implica un’operazione così ambiziosa: ordinare, classificare, calcolare, sottoporre a controllo, dissipare le zone d’ombra, identificare l’indistinto, bandire l’ambiguo. Tra i princìpi portanti della modernità, questa è l’idea-architrave, che per secoli ha ispirato pensieri e azioni di interi popoli. Conteneva un progetto di costruzione sociale e una promessa di felicità. Il primo ha lasciato dietro di sé delle macerie, la seconda non è mai stata adempiuta.
In un saggio che ha la dirompenza degli eventi intellettuali pronti a fare da segnavia, Zygmunt Bauman mette a tema il fallimento di un’epoca della storia umana, misurandolo sulla insostenibilità della pretesa iniziale.
È l’ambivalenza, infatti, e non l’univocità, la condizione normale in cui ci tocca vivere.
Noi esseri finiti ci condanniamo alla perenne inadeguatezza se ammettiamo soltanto l’alternativa rigida tra l’ordine e l’informe, tra le entità (cose, persone, collettività, situazioni, categorie della mente) che il linguaggio riesce a nominare in modo trasparente e l’imprevedibile, l’indecidibile, l’indeterminato, l’incontrollabile, di cui avvertiamo la presenza minacciosa.
In una simile inadeguatezza - e nell’autoinganno di un’identità certa - finì intrappolata, ad esempio, gran parte dell’intellighenzia ebraica di lingua tedesca, quando tra Otto e Novecento tentò diverse strategie di assimilazione alle élite dominanti. Combattuta e ostracizzata, l’ambivalenza si è presa però le sue rivincite, fino a imporsi quale segno distintivo dei nostri tempi. La postmodernità sembra potersi riconciliare con quanto di precario e di imperfetto – in una parola, di contingente – appartiene all’esistenza. Sembra essere disposta ad accogliere l’ambivalenza come destino condiviso.
L'autore
Zygmunt Bauman (Poznán, 1925), di origine ebraica, all’invasione tedesca della Polonia è fuggito con la famiglia in Unione Sovietica. Rientrato in patria alla fine della guerra, ha studiato sociologia e filosofia all’Università di Varsavia, dove poi ha insegnato fino al 1968. In quell’anno ha perso l’insegnamento, in seguito alla sua presa di distanza dalle posizioni antisemite del Partito comunista polacco, ed è riparato all’estero. Ha ottenuto la cattedra di Sociologia all’Università di Leeds, di cui è dal 1990 professore emerito. Gran parte della sua opera è tradotta in italiano. Presso le nostre edizioni ha pubblicato La decadenza degli intellettuali. Da legislatori a interpreti (1992). Nel 1989 ha vinto il Premio Amalfi e nel 1998 l’Adorno - Preis.