Il priore di Bose ricorda le feste natalizie della sua infanzia nel Monferrato, in una società rurale e contadina «d’altri tempi». Narra di come in quei giorni, nonostante il freddo pungente, tutti si attardassero per strada a scambiarsi auguri (regali pochi, non ce n’erano), di come stessero insieme intorno a un bicchiere di vino e a una fetta di pane. A Natale chi lavorava lontano tornava al paese e ne approfittava per dissipare malintesi e chiedere scusa senza sentirsi troppo umiliato. Racconta del ceppo natalizio, «el suc ’d Nadal», quel groviglio di tronco e radici tagliato alla base che veniva lasciato seccare almeno un paio d’anni sotto
al portico e che messo poi nel camino alla Vigilia avrebbe aspettato, ardendo, il ritorno dei padroni di casa dopo la messa di mezzanotte. Racconta delle statuette del presepe tirate fuori dalla scatola, ogni anno contemplandole come se le si vedesse per la prima volta. Del tavolo preparato nell’angolo della casa e ricoperto di muschio per ospitare il presepe in cui si ricreava la vita di un paese cosí come la si conosceva: con la bottega del falegname, del fabbro e dello stagnino. Dell’albero che, se non poteva essere un abete, era una scopa di saggina capovolta e addobbata. E naturalmente ricorda la preaparazione del pranzo di Natale, culmine conviviale della voglia di stare insieme: i ravioli impastati dalle donne tutte riunite in cucina, il cappone bollito, le sette portate canoniche. Ma Enzo Bianchi parla con vigore e forza anche del Natale di oggi: la sua perdita di senso, del suo essere diventato una festa di consumi. E ci mostra come il Natale sia anche la festa delle nostalgie che ci abitano, la festa della famiglia (e quindi una festa dura e triste per chi è condannato alla solitudine della separazione, della lontananza, del carcere, della malattia). Come nel Pane di ieri, Bianchi racconta storie personali che diventano ben presto esempio di saggezza e conoscenza. Storie universali che appartengono a tutti.
Enzo Bianchi (Castelboglione, Monferrato, 1943) è fondatore e priore della Comunità Monastica di Bose. Già direttore di «Parola, Spirito e Vita», membro della redazione della rivista internazionale di teologia «Concilium», è autore di numerosi testi sulla spiritualità cristiana e sulla grande tradizione della chiesa, in dialogo con il variegato mondo contemporaneo. Collabora a «La Stampa», «Avvenire» e «Repubblica». Per Einaudi ha curato Il libro delle preghiere (1997), Poesie di Dio (1999), Regole monastiche d’Occidente (2001), ha pubblicato
La differenza cristiana (2006), Il pane di ieri (2008), Per un'etica condivisa (2009) e L’altro siamo noi (2010).
*******LA NOSTRA RECENSIONE****** (di Francesco Bonomo)
Uno degli edifici residenziali che si trovano sulla parte più antica del colle Aventino riporta un'iscrizione, coperta dalle magnolie e che deve essere conosciuta per essere letta. Essa, in una ferrea sobrietà latina, afferma: Valetudo in solitudine, star bene nella solitudine. A nostro avviso questa frase riassume bene l'esperienza che schiere di uomini e donne d'Oriente e d'Occidente hanno fatto a contatto con la solitudine del proprio spazio, sia esso il deserto o la campagna più sperduta ai margini dei centri abitati. Solitudine orientata alla contemplazione ed alla vita di fede intensa, nella meditazione delle Scritture e nel lavoro manuale ed intellettuale. Vita ritirata che per noi uomini del XXI secolo si manifesta sotto gli aspetti più disparati, tra i quali si erge anche l'ammirazione per una vita coraggiosa: chiusi nel perimetro di una stanza per la durata della propria esistenza, i monaci sono un'immagine che contrasta con l'ordinaria mobilità cui oggi siamo abituati. Un coraggio che spinge a guardarsi dentro, a scontrarsi con i silenzi assordanti della propria interiorità, per conoscersi meglio ed accettare noi stessi, imparando ad accogliere l'altro che ci sta di fronte con le sue mancanze, le sue esigenze ed i suoi pregi. Perimetralità di un mondo realmente limitato e spiritualmente immenso. La solitudine di una cella può avere diversi risvolti e le sue esemplificazioni sono l'ouverture e l'epilogo del nuovo volume di Enzo Bianchi, Ogni cosa alla sua stagione. Il monaco Enzo comunica dalla sua cella la narrazione di ciò che è stata l'avventura della sue vita ed in essa il lettore percepisce il monachesimo dell'Autore umanamente declinato. Al rischio di concepire la cella, o la solitudine in genere, come un rifugio da un mondo che non piace o che piace troppo per le sue fascinazioni, fratel Enzo contrappone un umanesimo che pervade tutte le pagine di questo scritto autobiografico. In un certo senso il priore della comunità di Bose propone ai suoi lettori dei paradigmi: dalla vita quotidiana ancora viva nei suoi ricordi e potentemente espressa nella sua scrittura capace di catturare e di spingere verso la fine del libro in un soffio, egli passa per cenni o per esteso al mondo cristiano, al mondo dei valori, all'importanza delle Scritture e alla vicenda monastica di Bose. Paradigmi di un'umanità che lungo il corso delle pagine acquista sempre più le caratteristiche di un tesoro che la nostra vita quotidiana ha smarrito dalla radice o rischia di perdere definitivamente. Nella socialità, nell'amicizia come nei rapporti familiari, nel tempo trascorso insieme nell'ascolto e nel silenzio come nel conversare, fratel Enzo ricorda al mondo la sua identità, ricorda all'uomo gli elementi che lo qualificano, rammenta al cristiano l'essenza della propria adesione a Cristo. Un libro delicato per la sua esposizione cristallina e forte allo stesso tempo per i sentimenti che è capace di scuotere, portando spesso alla commozione od almeno alla lettura accompagnata da una piacevole impressione per la bellezza di una vita vissuta senza idealismi e nostalgie utopiche. Ogni cosa alla sua stagione ci racconta la vita del Nostro in modo indicativo: non offre consigli, non da spiegazioni ma al contrario propone domande ed offre una seria riflessione, di cui oggi si sente sempre più la mancanza, sull'uomo e sulla storia. Riflessione che non è principalmente cristiana ma che con nobiltà dirige verso il cristianesimo, presentato in margine ma senza rinunciare alla sua efficacia.
Si diceva, ci troviamo dinnanzi ad uno scritto autobiografico. In esso è costante il riferimento alla solitudine monastica, in un libro in cui si incontra una folla di persone, le più disparate: i vecchi del paese, gli amici, i genitori, i benefattori, i fratelli e le sorelle della comunità, il parroco... Un isolamento quindi che non è misantropia ed una socialità che è gratuita condivisione.
Anche la natura ha un ruolo in questo libro, essa infatti dona al lettore una visione di tranquillità nell'alternarsi delle stagioni e nella presenza dei suoi frutti, primo fra tutti il vino, proprio delle terre dell'Autore, elevato come nella tradizione ebraica e cristiana a simbolo di realtà superiori, dalla convivialità alla metafora con Dio.
Un segno forte che Enzo Bianchi trasmette è dato dal suo realismo. Egli racconta la sua vita ma la racconta senza sconti, così com'è, fatta di dolori, rivolte, sofferenze e di delusioni ma anche di elevati sentimenti derivanti dai legami e dagli incontri che l'esistenza gli offre. Una vita raccontata all'insegna della gratitudine e delle domande che l'hanno riempita e che ancora continueranno a farlo. Un libro che presenta la vita di un uomo nelle pieghe di un tempo che appartiene a Dio e che esige di essere riempito e vissuto al meglio nell'umiltà creaturale e nello stupore dinnanzi al Creatore.