ESTRATTO DALLA PRIMA PARTE
1. L'obbedienza alla Parola
C'è un tratto delle omelie origeniane che è estremamente indicativo del modo con cui Origene leggeva la Scrittura, ossia, come egli stesso dice, praticava la vera ascesi:
« Chi non combatte nella lotta e non è temperante rispetto a tutte le cose e non vuole esercitarsi nella parola di Dio e meditare giorno e notte nella legge del Signore, questi, anche se può dirsi uomo, non può tuttavia essere chiamato uomo di virtù » (In Num. Hom. XXV, 5).
Il latino exerceri traduce qui il greco àskesis in senso proprio, in cui si equivalgono due elementi fondamentali e complementari: lo studio delle Scritture e la pratica costante delle virtù. Così ribadisce un passo del Contra Celsum:
« È chiaro per chi si mette a leggere (le Scritture) che molte cose possono avere un senso più profondo di quello che appare a prima vista, il quale senso si manifesta per coloro che si applicano all'esame della parola, in proporzione al tempo che si dedica alla parola e in proporzione all'impegno nello studio (àskesis) di essa » (VII, 60). Non diversamente da Origene, Eusebio parla dì « ascesi » riguardo ai divini discorsi e « nei confronti degli insegnamenti divini » e proprio riguardo a Origene dice che egli « praticava la ascesi » riguardo alla Parola (cf. Hist. Eccl. VI, III, 8-9). Con espressione e sostanza vicine al passo delle Omelie sui Numeri sopra ricordate, Metodio di Olimpo vedeva l'ingresso alla festa dei Tabernacoli, cioè alla « gioia del Signore », come frutto della fede e della « ascesi e meditazione delle Scritture » (Il Convito, IX, 4)'.
Uno degli aspetti inconfondibili di questa globale ascesi della parola e che condiziona gli altri è la obbedienza alla parola in quanto tale. Se questa è la caratteristica di tutta la lettura origeniana della Scrittura, lo è in maniera programmatica nelle omelie. Un commento biblico può essere per sua natura portato a fare un discorso a tesi, mentre l'omelia, spiegazione ecclesiale che obbedisce a una proposizione continua e unitaria della parola, rinuncia in anticipo a qualunque disegno « teologico » per esporre il puro disegno divino quale risulta dalle pagine bibliche.
Quali sono i dati di questa obbedienza alla parola? Innanzitutto c'è un dato di Chiesa, cui Origene si assoggetta e che anzi è il suo per eccellenza: la lettura continua della parola; la Chiesa annuncia, non sceglie parola, come se in essa ci fossero punti più o meno validi. Proprio la parola è un seme, va assunta in totalità: perché « ...per la parola che ora ci è stata proclamata dai libri divini: se trova un agricoltore esperto e diligente, anche se al primo contatto sembra insignificante e piccola, quando incomincia a essere coltivata e trattata con perizia spirituale, cresce in albero... » (In Ex. Hom. I,1).
La parola è tromba di guerra che scatena la lotta (cf. In Ex. Hom. III, 3) e per questo deve essere usata in tutta la sua pienezza per poter godere della sua forza vittoriosa (cf. In Ex. Hom. IV, 9). La lettura continua consente inoltre di seguire le linee della storia della salvezza nella continuità che dalla legge conduce alle fonti del Nuovo Testamento: « ...Scopriamo l'ordine della fede. Infatti il popolo è dapprima condotto alla lettera della legge e da questa non può allontanarsi fino a che permane nella sua amarezza; ma quando questa diventa dolce per mezzo dell'albero della vita (cf. Prov. 3, 18) e la legge comincia ad essere compresa secondo lo spirito, allora si passa dal Vecchio al Nuovo Testamento e si giunge alle dodici fonti apostoliche » (In Ex. Hom. VII, 3).
t bello scoprire questa espressione: l'ordine della fede. Una volta stabilita la primalità ontologica del Cristo e quindi del cristianesimo è possibile ripercorrere nel loro senso pieno gli eventi della storia biblica, inverandoli. Se questo è un tema comune a tutta l'esegesi origeniana, esso raggiunge nelle Omelie sull'Esodo alcuni spunti di rara efficacia, come nel passo celebre della Omelia H in cui la legge è vista come le fasce oscure e rozze che avvolgono Mosè, bambino bellissimo, e da cui lo libera e lo scioglie la Chiesa, la figlia di Faraone venuta dalle genti:
« Abbiamo un Mosè grande e forte: non pensiamo di lui nulla di meschino, nulla di basso, ma tutto magnifico, eccellente, bello... E preghiamo il nostro Signore Gesú Cristo di essere lui stesso a rivelarci e a mostrarci come è grande Mosè (cf. Es. 11, 3) e come è sublime » (II, 4).