La massima educazione possibile di ogni giovane è un diritto soggettivo. È perciò dovere morale e sociale della Repubblica soddisfarlo. Se non altro, per almeno 12 anni. Ma, soprattutto oggi, non è soltanto un dovere morale e sociale: è anche una convenienza economica. Non abbiamo miniere, infatti. Né petrolio. Abbiamo il terzo debito pubblico del mondo. L'unica ricchezza strategica su cui contare per il futuro è il contributo di intelligenza, socialità e creatività dei giovani. Non possiamo, perciò, permetterci di perderne nemmeno uno. Ma come? Con un sistema formativo che vuole l'80% di una generazione al "liceo" e il rimanente 20% in percorsi di istruzione e formazione professionale di serie B, oppure con un sistema formativo che vuole rivendicare e praticare la pari dignità educativa e culturale tra "licei" e "istituti dell'istruzione e formazione professionale"? Con una cultura educativa fondata sul metamessaggio che si studia per non lavorare e si lavora perché non si è studiato, oppure fondata sul principio contrario: nessuno, nella società attuale, può più lavorare senza studiare e studiare senza lavorare? L'autore difende le ragioni della seconda strada e, documentando le vicende riformatrici intervenute negli ultimi anni, cerca di spiegare anche perché, in Italia, è stato ed è così difficile, se non impossibile, percorrerla.