Siamo a New Orleans – che qui si chiama New Valois, ma rimane perfettamente riconoscibile – a metà degli anni Trenta. Un cronista a caccia di storie vendibili arriva in un piccolo aeroporto, dove familiarizza con i protagonisti di un cupo ménage à trois: un pilota che si guadagna da vivere col volo acrobatico alle fiere dell’aria; sua moglie, molto androgina in tuta, molto meno senza; e l’amante, un paracadutista che potrebbe essere il vero padre del figlio che i due hanno avuto. E lo scoop non tarderà, perché gareggiando su un vecchio «monoguscio» – molto simile a quello che Faulkner stesso possedeva – il pilota troverà la morte nelle acque di un lago. Anziché il mélo che avrebbe potuto diventare – e che diventerà al cinema qualche anno dopo, nelle mani di un maestro del genere come Douglas Sirk –, Pilone si presenta come un romanzo fatto di molti romanzi. È infatti un reportage sul mondo degli aerei, che attraverso l’accumulo di dettagli anche tecnici approda a una stilizzazione quasi metafisica del volo; è un omaggio all’Eliot degli Uomini vuoti, perché ogni personaggio qui sembra un «cittadino del mondo delle ombre», sempre sul punto di cedere alla vertigine per l’alcol, il pericolo mortale, o il sesso; ed è, ancora una volta, una sgomenta interrogazione sul posto dell’uomo in una Natura smagliante e inesplicabile, che si estende dal «lieve, sibilante lamento delle conchiglie frantumate» fino a un cielo di «fitte, fioevoli stelle». È insomma Faulkner, o se si preferisce è la materia stessa di cui è intessuto il suo mondo.