Un’antica casa medioevale ormai degradata, un vasto cortile rinascimentale. È qui che il 16 ottobre del 1943 i nazisti arrestano più di trenta ebrei, un terzo dei suoi abitanti, tra i più poveri della Comunità. Sono per lo più vecchi, donne e bambini. Altri quattordici saranno catturati nei mesi successivi.
La storia che racconta Anna Foa in Portico d'Ottavia 13 è quella degli abitanti della Casa e dei nove mesi segnati per gli ebrei romani da oltre duemila deportazioni. Sono presi per strada, nel quartiere del vecchio ghetto da cui non si sono allontanati, nelle stesse case in cui sono tornati, nei negozi, perfino al bar. Li arrestano soprattutto i fascisti, le bande autonome dipendenti direttamente da Kappler mosse dall’avidità della taglia, guidate dalle delazioni delle spie. Tutto può accadere: sono l’avidità e la crudeltà la norma della spietata caccia all’uomo. Quando le spie indicano gli ebrei alle bande, un carrozzone si avvicina per far salire gli arrestati, liberarne alcuni, mandarne altri a morte, a seconda della convenienza e del capriccio. L’arbitrio era re nella Roma di quei mesi. Intorno, il caos più tremendo, nessuna forma di organizzazione, il vuoto, i bombardamenti, la fame, i rastrellamenti, le fosse Ardeatine. Il quartiere è il teatro di questa caccia infinita, un teatro che attira come una calamita i suoi abitanti e i cacciatori, che conoscono le loro prede e sanno come e dove trovarle.
La razzia
A destra della via del Portico d’Ottavia, lato est, vedo un milite delle SS tedesche. Sta piantato sulle gambe leggermente divaricate; solo un piccolo moto a dondolo da destra a sinistra, e da sinistra a destra, un moto pigro, tranquillo, la mano alla cinghia del fucile mitragliatore messo a tracolla. Due passi ancora. Altro milite SS immobile, armato
(Luciano Morpurgo, Caccia all'uomo. Vita sofferenze e beffe. Pagine di un diario 1938-1944. Dalmatia 1946, p. 107).
Pioveva su Roma, una fitta pioggia autunnale che non faceva molto rumore e copriva di un velo il buio della notte. Prima dell’alba i soldati tedeschi avevano sparato diffusamente intorno alle vie strette del vecchio ghetto: sparavano in aria, nel deserto del coprifuoco, senza scopo apparente, e questo rendeva ancor più inquietante il fragore dei loro spari. Qualcuno si era alzato ancor prima dell’alba, nella Casa e nelle case vicine. Era annunciato un rifornimento di sigarette, quella mattina, ed era meglio mettersi in coda presto dal tabaccaio dell’Isola Tiberina, là accanto. Erano tanti a fumare, allora, e le sigarette erano un bene raro e rassicurante.
Nella Casa, i due ampi porticati erano vuoti, non risuonavano ancora dei giochi dei bambini. Era festa, era sabato ma era anche l’ultimo giorno di Sukkot. Gli abitanti, stremati per essere rimasti a lungo svegli a causa degli spari, si concedevano un poco di sonno in più. Nella Casa e nelle case vicine, molti avrebbero lavorato come se non fosse giorno di festa, cercando di raccogliere qualche soldo per mangiare in quei tempi grami di guerra e di persecuzione. Più tardi alcuni sarebbero andati in sinagoga, non al Tempio grande, che era stato chiuso per precauzione dalla Comunità, ma al Tempio spagnolo, sotto al Tempio grande, dove le funzioni continuavano a tenersi regolarmente.
C’erano state grandi discussioni in Comunità, su questa decisione di tenere aperto per le funzioni almeno quel Tempio, e il rabbino Zolli, che voleva chiudere tutto, anche gli uffici della Comunità, si era nascosto da amici fidati, dopo aver esortato i fedeli a seguire il suo esempio. Non erano tempi, quelli, che gli ebrei si radunassero tutti insieme, neanche per pregare il Signore. Ma il presidente della Comunità aveva deciso altrimenti, accusando il rabbino di essere un vile e un allarmista. Eppure, dopo che il rabbino si era allontanato da casa, i tedeschi vi avevano fatto irruzione, sfondando la porta e crivellandola di colpi, senza trovare né lui né i suoi. Era stata quella la prima casa di ebrei in cui i nazisti erano andati, già ben prima della razzia, vicinissimo alla sinagoga, al numero 19 di via di San Bartolomeo dei Vaccinari.
La razzia cominciò poco prima delle cinque e trenta. Il quartiere del vecchio ghetto era circondato, c’erano pattuglie tedesche di guardia a tutte le vie di accesso, in via del Tempio, in via del Progresso, in via del Portico d’Ottavia, in piazza Costaguti, in via di Sant’Angelo in Pescheria, in piazza Mattei, di fronte al teatro di Marcello. Anche se forse, a giudicare da quanti sono riusciti a fuggire da via di Sant’Angelo in Pescheria, da quella parte la rete non dovette essere troppo stretta, probabilmente per mancanza di uomini.
Nella Casa, i nazisti non ebbero neanche il bisogno di sfondare il portoncino di legno, che era tutto sfasciato e restava sempre aperto. Entrarono nel cortile a passi pesanti e cominciarono a bussare alle porte col calcio del fucile, là al piano terra, dove si aprivano gli appartamenti e i magazzini. Poi, dal momento che nessuno andava loro ad aprire, sfondarono una porta a spallate, sempre gridando ordini nel vuoto. A quel punto, tutti gli abitanti della Casa erano svegli e tendevano un orecchio atterrito a quanto stava succedendo al piano terra.
Una donna che abitava al secondo piano, subito sopra la prima porta sfondata, Cesira Limentani, non perse altro tempo, prese la figlia di cinque anni, avvolse in una copertina il bambino più piccolo, che aveva solo sei mesi, e insieme ad alcuni dei suoi vicini saltò fuori dalla finestra, verso il retro. Il salto era basso, e riuscirono a fuggire, sottraendosi ai posti di blocco dei tedeschi. Più tardi, trovarono rifugio in un istituto religioso vicino al Gazometro. La donna non credeva davvero che avrebbero preso anche loro, le donne con le creature, ma non si era fermata troppo a pensare e, quando aveva sentito il fracasso della porta sfondata e gli ordini rauchi dei tedeschi, era scappata via subito, d’istinto, con i bambini. E questo salvò loro la vita.
Scrupolosamente, gradino dopo gradino, i nazisti salirono le larghe scale di marmo consunte della Casa, memoria di antichi splendori, fermandosi ad ogni porta senza tralasciarne nessuna. Questo dette ad alcuni degli abitanti il tempo di fuggire. La Casa era piena di anfratti e corridoi, che consentivano di scappare dal retro senza essere visti. Alcuni, pochi però, si erano già allontanati nei giorni precedenti. In tutto, quel giorno furono catturati nella Casa trentacinque ebrei. Molti altri abitanti della Casa, quattordici in tutto, furono presi nel corso dei mesi successivi e ben sei di loro furono assassinati alle Fosse Ardeatine nel marzo del 1944. Per una sola casa, sia pur grande come quella, fra novanta e cento abitanti, non era certo poco.
Intanto, mentre i nazisti salivano le scale delle case lì intorno e bussavano perentori alle porte, tutti si erano svegliati. “All’improvviso la Piazza esplose. Sentimmo ordini in tedesco, grida, imprecazioni”, scrive Settimia Spizzichino, l’unica donna superstite della deportazione del 16 ottobre, allora una ragazza di ventidue anni che abitava con la famiglia subito lì dietro, a via della Reginella. Voci e grida risuonavano alte dalle finestre degli edifici, gli uni avvisavano i parenti o gli amici nella casa accanto di scappare. “Prendono gli ebrei, prendono tutti”, si gridava da ogni parte. Le donne si affacciavano alle finestre degli ultimi piani, mentre già i nazisti entravano nelle case sottostanti. Chi ci riusciva, prendeva le scale facendo finta di niente, come fece la famiglia Fatucci che abitava all’ultimo piano della Casa: dopo aver fatto fuggire i figli maschi dai tetti, i genitori di mezza età e le due figlie adolescenti scesero le scale senza voltarsi indietro. Si era ormai capito che i tedeschi non si limitavano ad arrestare gli uomini in età da lavoro, ma prendevano tutti, proprio tutti, dai vecchi ai neonati. Che cosa ne avrebbero fatto poi, nessuno lo sapeva. Come non sapevano che i tedeschi stavano facendo lo stesso in tutta Roma, che in quello stesso momento ogni edificio della città in cui abitavano ebrei risuonava delle stesse grida e degli stessi passi.
I nazisti avevano in mano gli elenchi di tutti gli ebrei di Roma, uno per uno, completi di indirizzo. Avevano diviso la città in 26 zone “operative” e in ognuna di esse si sviluppava contemporaneamente la razzia, che aveva lo scopo di arrestare la maggior parte degli ebrei presenti in quel momento in città, fra italiani e stranieri oltre tredicimila. In realtà ne presero molti di meno, poco più di mille una volta rilasciati i “misti”, un sostanziale fallimento nell’ottica nazista, che il rapporto ufficiale di Kappler attribuisce sia al numero insufficiente degli uomini impegnati nell’azione sia “all’atteggiamento di resistenza passiva, e in alcuni casi individuali di aiuto attivo, della popolazione”.
Talvolta i tedeschi chiesero al portiere o ad altri inquilini dove potevano trovare quei signori là dell’elenco, alla cui porta avevano invano suonato. E ci fu chi, come il colonnello Guido Terracina, incontrò i nazisti mentre scendeva le scale per scappare e chiese loro in tedesco cosa stesse succedendo, lesse il suo nome sul loro elenco e rispose, con un gran sangue freddo, che quel signore non si vedeva dall’estate passata, che si diceva che fosse sfollato altrove. E continuò a scendere le scale, dopo aver salutato cortesemente i tedeschi (Morpurgo 1946, pp. 108-109). Ma per farlo bisognava sapere il tedesco e abitare in una casa, come quella dove abitava Terracina, in via Sannio, dove non vivessero solo ebrei. Non in Portico d’Ottavia, dunque, o, come dicevano gli ebrei, in “piazza”.
Gli uomini impegnati nell’operazione erano in tutto 365, cinque compagnie dell’esercito e della polizia di sicurezza guidate da un reparto specializzato nella caccia all’ebreo formato da 14 ufficiali e sottufficiali e 30 soldati, comandati dal capitano Theodor Dannecker, uno stretto collaboratore di Eichmann, che avrebbe successivamente cooperato con lui nella deportazione degli ebrei ungheresi.
Dannecker era arrivato a Roma il 6 ottobre, stabilendosi in via Tasso, la sede delle carceri della Gestapo, e aveva dedicato i giorni successivi alla preparazione della razzia, coadiuvato da un gruppo di poliziotti italiani messi a sua disposizione dalla questura e guidati dal commissario aggiunto Gennaro Cappa, allora capo del Servizio Razza della Questura di Roma e successivamente stretto collaboratore del questore Caruso. Avevano il compito di preparare l’indirizzario degli ebrei dividendolo per zone. Per farlo, usarono presumibilmente l’elenco depositato presso la questura (ma ce ne erano molte altre copie a Roma, dalle istituzioni centrali fin nei commissariati di polizia), frutto del censimento degli ebrei fatto nel 1938 e del suo principale aggiornamento nel 1942, e lo incrociarono con altri dati, tra cui probabilmente l’elenco dei contribuenti sequestrato alla Comunità ebraica il giorno dopo la consegna dell’oro, il 29 settembre.
Gli elenchi usati dai nazisti furono quindi il risultato del lavoro d’ufficio dei poliziotti italiani, sotto la direzione dei tedeschi. Non fidando però nella discrezione dei poliziotti italiani, Dannecker li consegnò per la notte in caserma per tutta la durata delle operazioni. L’azione doveva cogliere gli ebrei di sorpresa e il segreto era assolutamente necessario. Due o tre giorni prima del 16 ottobre arrivò anche il reparto speciale di Dannecker, che si acquartierò al Collegio Militare, sulla Lungara, dove poi sarebbero stati radunati gli ebrei razziati.
Stranamente, non abbiamo nessuna fotografia della razzia del 16 ottobre. Nessun tedesco, a quanto si sa, ha fotografato le file degli ebrei ammassati di fronte alle rovine del Portico in attesa dei camion, nessuno ha immortalato le azioni romane del reparto speciale di Dannecker. Eppure, sappiamo che era usanza dei nazisti prendere immagini delle loro azioni. Sono rimaste innumerevoli foto delle azioni naziste, perfino delle esecuzioni di donne e bambini nei villaggi russi e polacchi. Ci sono foto, scattate da un fotografo ufficiale delle SS, della distruzione del ghetto di Varsavia. A Roma non furono fatte foto. I nazisti potrebbero aver preferito non documentare questa azione, farla passare sotto silenzio.
È forse questo un altro indizio delle esitazioni tedesche di fronte alla deportazione degli ebrei romani proprio “sotto le finestre del papa”? O si tratta di un caso, e le foto c’erano e sono state successivamente smarrite? Emergeranno forse un giorno da qualche archivio ancora inesplorato, a renderci visibile quello che ora possiamo solo rivivere attraverso le testimonianze e i documenti scritti? Vedremo, allora, il portone del numero 13 con la fila di donne, vecchi e bambini che scendevano quelle scale spinti dai fucili dei nazisti?
I tedeschi eseguivano il loro compito senza violenze superflue ma in fretta. Solo il calcio del fucile a pigiare sui carri i recalcitranti, a spingere chi, vecchio o confuso, tardava a muoversi. Entrando, avevano consegnato ad ogni famiglia un biglietto dattiloscritto in due lingue, tedesco e italiano. Diceva che tutti, proprio tutti, dovevano raggruppare poche cose essenziali, dei viveri per otto giorni e lasciare la propria abitazione entro venti minuti, seguendo i militari tedeschi.
La fretta era tale che pochi ebbero il tempo di pensare, di capire cosa stava succedendo. Bisognava ricordarsi di prendere tutte le cose assolutamente necessarie ad uno spostamento, le medicine per i vecchi e i malati, quanto serviva ai bambini piccoli. La fretta stessa che veniva imposta alle vittime rendeva loro quasi impossibile sfuggire alla presa, una volta che erano nelle mani dei tedeschi. Ci fu chi riuscì a farlo, certo, nella confusione, ma molti che pure avrebbero potuto fuggire preferirono restare vicino ai loro cari, alle madri, ai bambini. Non dobbiamo dimenticare che erano intere famiglie che venivano così rastrellate. E poi, furono radunati tutti insieme ad aspettare i camion che li avrebbero portati lontano da lì, non si sapeva dove.
Per gli abitanti della Casa, furono pochi metri, poi furono fatti scendere sotto il livello del suolo, fra i ruderi del Portico d’Ottavia, là dove nel Medioevo c’era stato il mercato del pesce. E qui, mentre aspettavano, senza più il calcio dei fucili a far loro fretta, cominciarono a rendersi conto di cosa si trattava. Qualcuno si ricordò degli elenchi comunitari che erano stati sequestrati tre settimane prima dai nazisti, altri pensarono alle voci che giravano e a cui non avevano voluto dare peso. E lì, mentre aspettavano i camion e poi vi salivano, qualcuno riuscì ad allontanarsi approfittando di un attimo di distrazione dei soldati o forse di uno spiraglio di pietà. Ci fu anche chi riuscì a gettare il proprio bimbo nelle braccia di un passante generoso, come fece una delle donne arrestate al numero 9 di via del Portico d’Ottavia. Ma il sentimento più forte, oltre alla paura, era l’incredulità, che spingeva le famiglie a ritrovarsi, i figli a seguire la madre, i genitori a raccogliersi intorno i bambini. Che se ne facevano i nazisti di tutti quei bambini e quei vecchi?, si pensava. E nessuno poteva immaginare che la destinazione finale sarebbe stata non un campo di lavoro, ma la camera a gas.
Coloro che si salvarono in maggior numero furono quelli che i tedeschi cercarono più tardi, quando già la notizia si era sparsa per le case degli ebrei, portata da chi era riuscito a scappare o, dove c’era, dal telefono. Altri trovarono rifugio, mentre la razzia era in corso, in casa di non ebrei, di “ariani”. Bastò aprire la porta di casa e infilarsi in una porta a fianco che si apriva ad accoglierli, dal momento che in molti casi, anche se non in tutti, i tedeschi seguirono scrupolosamente i loro elenchi e avevano l’ordine di non frugare le case dei non ebrei. E anche quando intravedevano attraverso le porte socchiuse le loro vittime riunite nelle case degli “ariani” – come successe in alcuni casi – come capire se si trattava di ebrei in fuga o di parenti sfollati? Di quella solidarietà degli “ariani” verso gli ebrei, degli aiuti che questi avevano ricevuto, se ne lamentarono aspramente i nazisti, nel loro rapporto sulla razzia. Degli italiani, perfino di quelli in camicia nera, non c’era da fidarsi. Avevano fatto bene la sera prima a consegnare in caserma i reparti della polizia italiana che li avevano aiutati nella preparazione della razzia, perché non cominciassero a far chiacchiere in giro o non avvisassero addirittura gli ebrei di ciò che si stava preparando.
Ma nella Casa tutti gli abitanti erano ebrei, di tutti loro i tedeschi avevano i nomi. Non c’era nessun altro a portata di mano a cui chiedere rifugio, nessun appartamento che non fosse destinato ad essere rovistato da capo a fondo perché abitato dagli ebrei. E fu questa, se non la prima, comunque una delle prime case da cui cominciò nel quartiere del vecchio ghetto la razzia del 16 ottobre 1943: via del Portico d’Ottavia 13.