Film come Erin Brockovich e Il socio
insegnano che quando la legge
dà spettacolo la giustizia trionfa.
Ma sarà vero?
Il cinema americano ci ha abituati a pensare che la giustizia la fanno gli avvocati. Arringhe che commuovono le giurie, virtuosismi oratori, gestualità, presenza scenica: tecniche grazie alle quali i principi del foro riescono sempre a scagionare gli innocenti e a sbattere in galera i colpevoli. La realtà, inutile dirlo, è diversa. A spiegarcelo, attraverso aneddoti personali e fatti di cronaca, è Remo Danovi, avvocato da sempre interessato a ricostruire il profilo storico e culturale degli uomini di legge e, in particolare, della sua categoria. In Processo al buio ha scelto di farlo rileggendo piccoli e grandi classici del legal thriller, genere che al cinema ha visto il successo di pellicole come Il verdetto e Presunto innocente, film che diventano pretesti per riflettere non solo sulle improbabili ricostruzioni cinematografi che, ma sui problemi e le storture della giustizia di ogni giorno: il tutto attraverso la lente di un’etica intesa come il diritto degli altri. Capolavori immortali come Rashomon e La parola ai giurati o campioni d’incassi come Erin Brockovich e Il socio non solo hanno arricchito l’immaginario di generazioni di spettatori, ma hanno contribuito a dar forma alla nostra percezione della legge, del ruolo degli avvocati e dell’etica che li guida. Ecco perché ripensare a questi film non è un semplice esercizio di cultura cinematografica, ma piuttosto è un modo per capire cosa resta del nostro senso della legalità e della nostra capacità di distinguere fra giusto e sbagliato.