Era un giovane napoletano, timido e orfano di entrambi i genitori, che si sarebbe accontentato di un impiego pubblico ma divenne adulto con il gusto della sfida, la passione civile, l'amore per la patria, che servì da volontario con Garibaldi. Eugenio Torelli Viollier diventò giornalista sotto le ali affettuose di Alexandre Dumas, di cui fu segretario e traduttore, scoprendo Parigi e i salotti letterari e studiando segreti e regole delle grandi imprese editoriali. Amava le lettere, il melodramma, il teatro. Scrisse poesie, romanzi, libretti d'opera che non ebbero il successo sperato. Era anche un visionario che immaginò di fare con quattro precari colleghi e pochi soldi quello che sarebbe diventato il più grande quotidiano italiano. La sua biografia è straordinaria nello svolgimento, dalla Napoli borbonica alla Milano della nuova classe dirigente unitaria, e nella sua attualità: perché è la storia di un successo costruito in giro per l'Europa e nella metropoli lombarda, dove i talenti del sud vengono a cercare fortuna e valorizzazione. Alla guida del «Corriere», il direttore seppe esaltare i talenti che incontrava, chiamandoli a scrivere per il giornale. Fra questi, Giovanni Verga, Luigi Capuana, Matilde Serao. Seppe anche scoprire l'uomo adatto alla successione: Luigi Albertini, il direttore del nuovo secolo, il grande giornalista il cui nome si sarebbe legato per sempre alla storia del «Corriere». Il successo del quotidiano, sbocciato nel giorno di Quaresima sotto le volte della Galleria di Milano, fu negli ultimi tempi segnato da contrasti interni alla redazione, maldicenze messe in giro dalla concorrenza e peripezie economiche. E il suo protagonista finì per uscire di scena in punta di piedi, in solitudine e dimenticato.