A un anno dall’inizio della pandemia, i dati che parlano della sofferenza dei bambini e dei ragazzi allarmano. Ma cosa accadrebbe se fossero pubblicati quelli sugli adulti? Il negazionismo oggi sarebbe ridurre il problema educativo alle aule e alle modalità didattiche, perché la grande prova che tocca i giovani riguarda tutti.
Generazione Covid. Dipende da ciascuno il significato di questa espressione diventata di moda: se è lo stagliarsi di una generazione traumatizzata dalle limitazioni, da un tempo “perduto”, o se è la grande occasione per verificare che cosa è in grado di generare il desiderio di vivere.
«Cosa possiamo fare?». Non c’è domanda più comprensibile oggi, soprattutto se fatta da un genitore. Ma la replica è netta: «Il senso della vita non si trasmette con il Dna» e il problema è innanzitutto nostro, ed è «la paura profonda che tutto finisca in nulla». È la risposta di Julián Carrón all’incontro del 30 gennaio, “Crescere e far crescere in tempo di pandemia”, nato dalla lettera di alcuni insegnanti di CL al Corriere della Sera e dal suo libro Educazione, comunicazione di sé, contributo al Patto globale voluto dal Papa per quella che definisce «una catastrofe educativa», davanti alla quale «non si può rimanere inerti».
Ma che cosa non ci lascia inerti? Quando ogni sforzo è sconfitto in partenza, solo fare una strada in prima persona. «In una società come questa non si può creare qualcosa di nuovo se non con la vita», diceva Giussani già nel 1978: «Non c’è struttura né organizzazione o iniziative che tengano. È solo una vita diversa e nuova che può rivoluzionare strutture, iniziative, rapporti, insomma tutto».
In questo numero trovate alcune storie di chi comunica ciò che lo sostiene, e risponde a quell’urgenza di significato, per sé e per l’altro, che sconfina dalle aule, dalle geografie, dal tipo di lavoro, da età e condizioni. Gli universitari portoghesi che nella pandemia scoprono se stessi al posto di vivere in trance; la presa che ha su adulti e ragazzi un’esperienza come il Donacibo; un sindaco che si chiede cosa ricostruisce il sentire comune. Perché si educa con tutto, nel modo di lavorare o di rientrare a casa, di vivere un dolore o di guardare un film.
L’educazione avviene sempre controvento, si è detto in questo tempo. Ma occorre che qualcosa si alzi più forte del vento: nell’apatia, ci muove solo qualcuno che dialoga con il nostro bisogno profondo di essere amati.
Come Antonio, che ha iniziato a insegnare a oltre cinquant’anni, esattamente un mese prima che il mondo fosse congelato dal Covid. Tante le difficoltà, eppure nel dialogo del 30 gennaio ha raccontato il rapporto sorprendente che è accaduto con i suoi studenti: loro sono stati investiti dallo sguardo che ha ricevuto lui nella vita, incontrando gente cristiana. «Se non siamo stati guardati in modo vero, non possiamo guardare l’altro in modo vero», concludeva Carrón quella sera: «Anzi, se non siamo guardati ora! Generati noi ora».