Più passa il tempo, più l’evidenza diventa netta: la crisi che stiamo vivendo da tempo, questo famigerato “cambiamento d’epoca” di cui ogni giorno scopriamo nuovi tratti, ha anche un volto incattivito. La confusione e lo spaesamento sfociano sempre più spesso in rancore, rabbia, tensioni. È come se ci fosse un indurimento diffuso di muscoli e cuore davanti a una minaccia che si avverte concreta, ma al tempo stesso vaga, non identificabile in un punto preciso. E allora si risponde chiudendosi all’altro, chiunque sia: tirando su muri, approfondendo confini e divisioni. Tutte parole che stanno segnando questa stagione politica. Dovunque.
Perché il fenomeno è globale: tocca l’Italia che perde colpi e l’Europa che perde i pezzi sotto il tiro dei neosovranismi, gli Usa di Trump e il Sudamerica… E il tratto comune, quello che sta al fondo di questo avvitamento su se stessi, alla fine è semplice: la paura. Paura di perdere ciò che si ha – o di non poter raggiungere ciò che si immagina. Paura nel vedere crollare certezze e consuetudini. Paura di scoprirsi, in fondo, irrilevanti, travolti da fenomeni troppo più grandi di noi: l’immigrazione, la globalizzazione... «Questa crisi non è innanzitutto politica o economica, ma antropologica, perché riguarda i fondamenti della vita personale e sociale», ha osservato qualche tempo fa Julián Carrón in un’intervista al Corriere della Sera.
Può sembrare strano dire che il grande nodo con cui deve fare i conti la politica, oggi, sia proprio questa incertezza esistenziale, ancora prima delle discussioni sull’economia, l’Europa o i migranti. Ma se è vero che la radice della crisi è così profonda, chiedersi da dove si possa ripartire per costruire una casa comune più solida, alla fine, coincide con una domanda radicale: cosa può sconfiggere questa paura? Non è una questione da sociologi. Finché non la si affronta, non si entra nel merito vero dei problemi. Se non la si tiene presente, dandola per scontata per passare in fretta al “dopo”, a come risolvere “le questioni concrete”, si è condannati a restare in superficie, e, quindi, ultimamente sterili: tappata una falla, se ne aprirà una più grande poco più in là. Se, invece, ci si rende conto che l’orizzonte è questo, anche il modo di affrontare le “questioni concrete”, molto concretamente, cambia.
E qui entra in gioco l’altra questione che ci sta a cuore: cosa abbiamo da offrire noi cattolici, su questo? La fede ha qualcosa da dire davanti a questa incertezza? Può generare persone che non ne restino soffocate, che scoprano il gusto e la passione di lavorare – là dove sono, il ruolo importa poco – per costruire insieme? Testimoni di una sovrabbondanza che rimette in moto anche l’interesse al bene comune, di una «modalità di vincere la paura adeguata alle sfide odierne», come dice Carrón in quella intervista? Ecco: Tracce, stavolta, parla di questo. Nel “Primo Piano”, dove raccontiamo storie volutamente a portata di tutti. Ma anche altrove – nelle lettere, nella vicenda di un’azienda particolare, nel reportage dal Venezuela… Perché c’è gente che costruisce. Per tutti.