Ha detto Milosz che a scrivere versi non è l'abilità della mano, ma "il cielo, a noi caro ancorché scuro, / qual videro i genitori e i genitori dei genitori / e i genitori di quei genitori / nel tempo che fu". Per Adam Zagajewski "voce sommessa sullo sfondo delle immense devastazioni di un secolo osceno, più intima di quella di Auden, non meno cosmopolita di quelle di Milosz, Celan o Brodskij" (Walcott) - quel cielo è Leopoli (oggi l'ucraina L'viv), la città della Galizia "dove dormono i leoni", che alla fine del secondo conflitto mondiale intere famiglie dovettero abbandonare per essere deportate nella Slesia sottratta alla Germania e assegnata alla Polonia. Cristallizzata dalla memoria e purificata dalla nostalgia, Leopoli si trasforma così in luogo concreto e insieme invisibile, familiare e sconosciuto, sacrario che "non è opportuno visitare", come se "la bella definizione di docta ignorantia avesse abbandonato le pagine dei libri per divenire una ferita aperta sulla verde mappa dell'Europa". Ma senza il grigio approdo di Gliwice (nell'Alta Slesia), mortificata dai modelli imperanti del socialismo reale, città terrena e regno dell'immanenza, la trascendente e celeste Leopoli, per sempre perduta, non potrebbe continuare a vivere. Né il viaggiatore-poeta saprebbe ritrovare "la vita di prima della catastrofe, la folla di prima della catastrofe, le nuvole, le vetrine, i cespugli di sambuco di prima della catastrofe". E, sempre straniero e sempre in cerca di una patria, scorgere il proprio volto.